18/01/2024


Il dipendente di una Banca che agevola operazioni di credito tra clienti dell’Istituto, a cui quest’ultimo è del tutto estraneo, tiene una condotta che costituisce giusta causa di recesso e, pertanto, può essere legittimamente licenziato. Tale principio è stato enunciato con la recentissima sentenza n. 109 del 3 gennaio 2024 dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha integralmente confermato la pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva, invece, riformato la decisione di primo grado. Nel caso in esame, nel corso delle indagini preliminari che avevano condotto all’apertura di un procedimento penale nei confronti della direttrice della filiale di una Banca, era emerso che la stessa aveva posto in essere plurimi e ripetuti comportamenti finalizzati ad agevolare l’attività e gli affari privati di un facoltoso cliente dell’Istituto, il quale accordava finanziamenti onerosi ad altri clienti di quest’ultimo. In particolare, dall’inequivocabile contenuto delle intercettazioni telefoniche disposte in sede penale risultava con chiarezza che la direttrice non si era limitata a mettere in contatto tra loro i suddetti soggetti a tal fine (condotta, già di per sé, senz’altro censurabile, considerato che – com’è noto – l’erogazione di prestiti rappresenta un’attività precipua svolta dalle Banche), ma aveva anche assunto un ruolo centrale nella vicenda. Infatti, la stessa – anche durante l’orario di lavoro e all’interno dei locali dell’Istituto – era solita tenere i rapporti con entrambe le parti, partecipare attivamente alle trattative tra di esse (nell’ambito delle quali era individuata come unica figura di riferimento), fornire loro consigli ed indicazioni, nonché gestire le reciproche conflittualità, adoperandosi al fine di assicurare il buon esito delle operazioni di concessione del credito. Nella fattispecie de qua, la Corte di Cassazione ha evidenziato, innanzitutto, la piena utilizzabilità, ai fini della contestazione disciplinare, dell’intera documentazione inerente alle intercettazioni estratte dal fascicolo penale dell’indagine a carico della direttrice della Banca. Ciò in quanto dette intercettazioni erano state legittimamente disposte, nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, tenuto anche conto dell’inapplicabilità in ambito civile e giuslavoristico dei limiti al loro utilizzo previsti dall’art. 270 cod. proc. pen. esclusivamente con riferimento al processo penale. In proposito, il Supremo Collegio ha osservato che era del tutto irrilevante la circostanza che la prova dell’effettiva sussistenza della condotta addebitata alla lavoratrice fosse contenuta in verbali di intercettazione che, non essendo stati trascritti all’interno di una perizia, si presentavano nella forma del c.d. “brogliaccio”. Sul punto, è stato evidenziato che – nell’accertamento dell’esistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. – il Giudice del Lavoro può fondare il proprio convincimento sulla base del materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari anche se quest’ultimo non è stato sottoposto al vaglio del dibattimento processuale, poiché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, la veridicità di detti elementi. Inoltre, la Corte di Cassazione ha rilevato che la mancata trascrizione delle intercettazioni telefoniche non valeva, in ogni caso, ad escludere la loro efficacia probatoria, in quanto quest’ultima era costituita dalle bobine e dai verbali, mentre la trascrizione si sostanziava in un’operazione meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico. Sulla scorta del suddetto materiale probatorio – la cui valutazione di merito effettuata dalla Corte d’Appello di Bologna è stata ritenuta dal Supremo Collegio scevra di vizi logico-giuridici e, quindi, insindacabile – il licenziamento della dipendente è stato considerato legittimo. Al riguardo, è stato evidenziato che la condotta della direttrice che, nello svolgimento delle sue mansioni, si era “spesa” al fine di consentire il buon esito delle operazioni di concessione del credito erogato non dall’Istituto che la stessa rappresentava, bensì di un cliente di quest’ultimo in favore di altri clienti, appariva idonea – sotto il profilo giuslavoristico – a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in ragione del ruolo di elevata responsabilità da lei ricoperto, che le avrebbe imposto di agire sempre esclusivamente nell’interesse della Banca sua datrice di lavoro. Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato che a nulla rilevava in senso contrario il fatto che la dipendente fosse stata poi assolta dall’ipotesi di reato a lei ascritta, in ragione della ben nota autonomia tra processo penale e civile, in forza della quale il Giudice civile (e, quindi, anche quello del Lavoro) ha il diritto di riesaminare in modo indipendente il materiale probatorio raccolto in sede penale senza essere vincolato dalla valutazione del medesimo ivi effettuata.


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