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22/04/2024


......Occorre allora ricordare e ribadire che, nell'accerta mento del mobbing, «l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito fa condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto ...; a tal fine fa legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere fa condotta, unitariamente considerata» (Cass. n. 26684/2017). In aItri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l'intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell'elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all'isolamento del lavoratore. Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico-legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018); che è quanto avvenuto nel caso di specie, in mancanza di una valutazione sul significato complessivo dei fatti singolarmente esaminati e sulla base di un giudizio generico e atecnico sulla «sensibilità personale» della ricorrente che ha sostituito l'esame delle risultanze della c.t.u.. Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, non rientrano tra le nozioni di fatto di comune esperienza «quelle valutazioni che, per fa specificità scientifica e l'assenza di un'acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi» (Cass. n. 15159/2019). ll giudice del merito può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall'esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche.
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11/04/2024


Con l’ordinanza n. 8626/2024, la Corte di Cassazione stabilisce che mentre spetta al lavoratore la prova della mancata fruizione delle pause lavorative, sul datore di lavoro incombe l’obbligo di provare il godimento del riposo compensativo nell’arco del mese. La ripartizione dell’onere della prova punta a garantire un equilibrio tra i diritti dei lavoratori e gli obblighi datoriali, assicurando l’adempimento dei doveri contrattuali da parte di entrambe le parti.
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11/04/2024


Corte di Cassazione, ordinanza n. 8381/2024: la mancata comunicazione al datore di lavoro del nuovo indirizzo va punita con la multa e non con il licenziamento e quindi va reintegrato e risarcito il dipendente che ha avuto esito negativo alla visita di controllo durante il periodo di malattia. Viene esclusa nel caso specifico l’assenza ingiustificata: il lavoratore ha comunicato al numero verde dell’Inps l’indirizzo dove sarebbe stato reperibile per la visita. Il medico dell’ente ha però tentato il controllo ad un recapito diverso, senza successo.
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28/03/2024


Con una recente sentenza, il Tribunale di Reggio Emilia ha sostenuto che grava sul lavoratore, il quale lamenti di aver subito “mobbing”, l’onere di allegare e provare sia la sussistenza di plurime condotte illegittime, sia la circostanza che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione. Il Tribunale, richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte – secondo la quale, ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime (Ordinanza Cassazione, 9 giugno 2020, n. 10992) – ha ritenuto che, nel caso di specie, il lavoratore non aveva provato né la sussistenza dell’asserita dequalificazione, né la sussistenza di condotte illegittime poste in essere dal datore di lavoro, né l’esistenza di un disegno persecutorio unificante preordinato alla prevaricazione. Inoltre, il Giudice di prime cure ha specificato che, nel caso esaminato, non era neppure individuabile una responsabilità del datore di lavoro per aver consentito il mantenimento di un ambiente di lavoro stressogeno, tale da incidere sulla salute del lavoratore. In particolare, nella valutazione del caso concreto, il Tribunale ha ritenuto che tutte le sanzioni disciplinari comminate al lavoratore nell’arco di un ventennio erano giustificate, perché derivanti da contestazioni collegate a specifiche condotte del dipendente che non potevano essere considerate come tasselli di un disegno persecutorio dell’azienda. Ancora, a dire del Giudice di Reggio Emilia, il ricorrente non aveva provato né che l’azienda prima gli avesse promesso una promozione e, poi, gli avesse preferito un altro candidato, a dire del lavoratore, meno qualificato di lui; né che il candidato che aveva ottenuto la promozione, divenendo, così, suo superiore gerarchico, fosse in contrasto con il ricorrente perché quest’ultimo era a conoscenza di presunti fallimenti lavorativi del suo superiore; né che il superiore gerarchico del lavoratore avrebbe tenuto un atteggiamento intimidatorio nei suoi confronti, cercando di allontanarlo dall’azienda. Il Tribunale, poi, ha ritenuto insussistenti anche altri comportamenti, posti in essere, a dire del ricorrente, a distanza di 10 anni dai primi, ossia: I) l’asserito mancato mantenimento della promessa del passaggio ad altra posizione lavorativa; II) il mancato riconoscimento di un aumento retributivo asseritamente promesso; III) l’asserita comunicazione che egli rientrava tra dipendenti in esubero presso la Società- la quale aveva aperto una procedura di licenziamento collettivo – e che se non avesse accettato l’accordo transattivo propostogli sarebbe stato estromesso dall’azienda senza alcun incentivo economico; IV) la riduzione, asseritamente immotivata, delle sue aree di competenza; V) il cambio di valutazione da over performer a low performer, che aveva avuto quale conseguenza la partecipazione a corsi di recupero; VI) la riduzione, per un solo anno, dell’incentivo corrispostogli; VII) l’assegnazione ad altra posizione lavorativa. Invero, il Giudice di Reggio Emilia, ha evidenziato che: – non vi erano elementi probatori atti a dimostrare che il ricorrente dovesse essere assegnato ad altra posizione lavorativa; – l’aumento retributivo era stato, comunque, concesso al lavoratore, seppur in misura minore di quella inizialmente prospettata, e che erano stati chiariti i criteri che avevano portato a riconoscere l’aumento retributivo in misura ridotta, non integrando detta circostanza un atto vessatorio; – non vi era stato nessun atto vessatorio rivolto nei confronti del ricorrente, ma che egli, come molti altri lavoratori, era stato destinatario di una proposta transattiva di uscita incentiva su base volontaria, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo; – i lavoratori ogni anno ricevono una valutazione sulla base di precise regole procedurali, e che il ricorrente aveva ricevuto una valutazione negativa perché non aveva raggiunto gli obiettivi di performance prefissati; – gli incentivi corrisposti al lavoratore erano stati ridotti sulla base di criteri applicati anche ad altri dipendenti, in forza di quanto previsto dal piano incentivi, e che per un anno l’incentivo era stato ridotto a causa delle numerose assenze del lavoratore. Il Tribunale ha, da ultimo, chiarito che il ricorrente non aveva provato di aver subito demansionamento o dequalificazione, in quanto, aveva sempre svolto la medesima attività. Piu precisamente, il Giudice di Reggio Emilia ha precisato che era emerso chiaramente il fatto che il lavoratore preferisse occuparsi della promozione di alcuni prodotti e settori piuttosto che di altri, ma che le modifiche decise dal datore di lavoro in merito alla riduzione delle aree di competenza del lavoratore o della sua assegnazione ad altra posizione lavorativa non potevano essere inquadrate nell’ambito di un demansionamento.
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25/03/2024


Cosa accade se a fronte dell’invito alla ripresa del servizio, non giunge alcuna comunicazione dal lavoratore che si è visto accogliere in giudizio la domanda di reintegrazione? Rispondendo a tale quesito, la Corte di Cassazione, con ordinanza del 5 febbraio 2024 n. 3264, da una parte, ha ribadito il principio per il quale il termine di trenta di cui dal quinto comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori consente al lavoratore di ponderare adeguatamente l’adesione all’invito alla ripresa del servizio ovvero la richiesta del pagamento dell’indennità sostitutiva alla reintegrazione (pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto). Dall’altra parte, la Corte ha precisato che l’opzione del lavoratore soggiace al termine decadenziale di 30 giorni dalla ricezione della lettera datoriale di ripresa del servizio. Decorso tale termine, il rapporto di lavoro è da considerarsi definitivamente risolto. Questi i fatti. In esecuzione del provvedimento giudiziale di nullità del licenziamento, il datore di lavoro ha comunicato al lavoratore l’immediata ripresa del servizio con contestuale avviso che in caso di mancata presentazione, senza giustificato motivo, il rapporto di lavoro si sarebbe automaticamente risolto. Decorsi inutilmente trenta giorni successivi dalla ricezione della predetta missiva aziendale, l’(ormai) ex dipendente ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo rivendicando il diritto al pagamento delle retribuzioni calcolate dalla data di pubblicazione della sentenza di reintegra sino all’esercizio dell’azione giudiziaria. A fronte dell’opposizione al decreto ingiuntivo da parte dell’azienda, il Tribunale ha accolto le richieste economiche del lavoratore limitatamente però a quanto maturato nel periodo tra la data della sentenza di reintegra e lo scadere dei trenta giorni dalla ricezione della lettera aziendale. Investita della questione, la Corte di Appello, richiamati i fatti, i conteggi e i pagamenti in corso, ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha interposto un unico motivo di ricorso per Cassazione sostenendo la nullità della missiva dell’azienda in quanto recante un termine inferiore ai trenta giorni di cui all’art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori. Il ricorso del lavoratore è stato rigettato dalla Suprema Corte, la quale ha chiarito come l’indicazione da parte del datore nella lettera di una data di ripresa del servizio anteriore allo scadere dei trenta giorni normativamente previsti non pregiudichi né la validità né l’efficacia di tale comunicazione. Ciò in applicazione del principio di conservazione del contratto di cui all’art. 1367 cod. civ., criterio interpretativo oggettivo dei negozi giuridici che, a tutela della certezza del diritto e dei traffici giuridici, scoraggia il permanere di situazioni di incertezza nell’ordinamento, attribuendo ad un atto giuridico il significato che gli consenta di esplicare effetti. Oltre a chiarire la validità ed efficacia della lettera di ripresa del servizio, con la predetta motivazione la Corte di Cassazione ha dimostrato come intorno ai canoni interpretativi in materia contrattuale continui ad evolversi il c.d. “diritto del lavoro vivente”. L’applicazione di tali criteri risulta (ancora) imprescindibile nell’inquadramento di fattispecie complesse, ad oltre ottanta anni dall’opera codificatoria dell’eminente e indimenticato civilista Cesare Grassetti.
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21/03/2024


Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha affermato [dando continuità alla posizione espressa già nel 2021] il principio secondo cui, qualora la parte che subisce il recesso [nel caso di specie il datore di lavoro] rinunci al periodo di preavviso, interrompendo immediatamente il rapporto di lavoro, essa non è tenuta a riconoscere la relativa indennità sostitutiva alla parte recedente [lavoratore dimissionario]. La Corte ricorda innanzitutto che l'istituto del preavviso adempie alla funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso - che è atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo - le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto. Il tema della rinunciabilità del periodo di preavviso da parte del soggetto non recedente e delle conseguenze giuridiche di tale rinuncia è strettamente connesso e condizionato dalla soluzione che si intende dare alla questione circa l'efficacia reale o obbligatoria del preavviso. A tale riguardo, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta da diversi anni al superamento della tesi della natura reale del preavviso, ritenendo che, alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 c.c., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso abbia efficacia obbligatoria. Da ciò discende che la parte non recedente, che abbia rinunciato al preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunciabilità del preavviso esclude che ad essa possano connettersi a carico della parte rinunciante effetti obbligatori in contrasto con le fonti delle obbligazioni indicate nell’art. 1173 c.c. Questo nuovo orientamento farà sicuramente discutere in quanto si pone in contrasto con quello secondo cui la parte che recede nel rispetto del preavviso, avrebbe diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del suddetto o in alternativa, qualora la parte non recedente rinunci al preavviso lavorato, alla relativa indennità sostitutiva.
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18/03/2024


Con la recente sentenza la Suprema Corte ha confermato la pronuncia dei giudici di merito di legittimità del licenziamento di un cuoco di una Casa di Cura che sistematicamente e reiteratamente si appropriava di beni alimentari, pur se deperibili e di modico valore. Si legge, in particolare, in sentenza: "con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. va condiviso l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la condotta contestata perché effettivamente essa, quale fatto costituente reato e già oggetto di episodi emulativi da parte di altri soggetti, sebbene riguardante cibi cotti e deperibili, non destinati ad esigenze personali del lavoratore o ad altri scopi umanitari, manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto, sebbene vi possa essere stata una apparente tolleranza da parte del datore di lavoro ma senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ciò che viene messo in discussione è il dovere del lavoratore di non porre in essere comportamenti che possano incidere sulla fiducia che l'azienda ha riposto nel dipendente stesso. 12. Deve, per concludersi, anche dare risalto al fatto che, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto".
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18/03/2024


La Cassazione, con ordinanza n. 6468 del 12 marzo 2024, consolida l’indirizzo per cui l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex lege n. 104/92, per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, costituisce giusta causa di licenziamento in quanto viola le finalità per cui il beneficio è concesso. Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso ex L.104/92, deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla tematica dei licenziamenti disciplinari intimati a causa dell’utilizzo di permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle della cura del disabile. La fattispecie è quella dell’abuso del diritto con riferimento all’uso improprio delle prestazioni assistenziali da parte dei lavoratori. Sul punto esiste un orientamento di particolare rigore che fa proprio leva sul “disvalore sociale” della condotta che contrasta col “minimo etico” preteso dal lavoratore funzionalmente collegato, non solo agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, ma anche con quelli che sono connaturati all’appartenenza ad una comunità. In tal senso, tra le prime ad occuparsi della questione, si segnala Cass. 4.3.2014 n. 4984, che ha trattato il noto caso di utilizzo deii permessi ex lege n. 104/1992 per partire in vacanza con degli amici per un lungo fine settimana; seguita da Cass. 30.4. 2015, n. 8784, ove il prestatore ha abusato del diritto utilizzando il permesso per partecipare ad una “serata danzante”. Si indicano sul punto anche: Cass. 06 maggio 2016, n. 9217, nonché, in senso conforme, Cass. 22.03.16, n. 5574, Cass. 13.9.2016, n. 17968. Tuttavia, occorre segnalare che secondo Cass. 17968/16, vi è abuso del diritto “ove il nesso causale manchi del tutto” tra assistenza del disabile e assenza dal lavoro, ciò giustificando il recesso per lesione della buona fede del diritto. Ciò perché volendo aderire alla tesi che l’assistenza deve essere continua ed esclusiva, di certo non si può pretendere che essa si espleti ininterrottamente per l’intera giornata (cfr. Cass. 31.01.2017, n. 2600). Orientamento questo confermato, successivamente, da Cass. 19.06.2020, n. 12032, Cass. 12.08.2020, n. 16930 e Cass. Ord. 25.09.2020, n. 20243.
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15/03/2024


È questo il principio di diritto recentemente espresso da una pronuncia della Cassazione (ordinanza n. 27331 del 26 settembre 2023). La questione trae origine dal caso di un lavoratore che aveva proposto un’azione volta a contestare le proprie dimissioni volontarie e ad accertare, invece, l’esistenza di un provvedimento espulsivo da parte del datore di lavoro. In primo grado e poi in appello il lavoratore vedeva respinte le proprie pretese sul presupposto per cui in materia di onere della prova (ex art. 2697 c.c.), laddove, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro senza forma scritta, si controverta sulla riconducibilità della cessazione del rapporto al lavoratore piuttosto che al datore di lavoro, è il lavoratore che agisce a dover fornire la prova dell’esistenza di un provvedimento espulsivo. Una siffatta prova non era stata fornita dal ricorrente e, pertanto, doveva ritenersi accertata l’esistenza delle dimissioni volontarie. Il lavoratore promuoveva ricorso per Cassazione sostenendo che la Corte d’Appello aveva erroneamente trascurato come la fattispecie si fosse verificata nel 2018 e dunque nel periodo di vigenza dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015. Tale norma prevede che “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali … e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”. Le dimissioni del lavoratore, in assenza della procedura telematica, erano dunque inefficaci. Del medesimo avviso anche la Suprema Corte che ha cassato con rinvio la pronuncia della Corte territoriale rilevando come i giudici del merito avessero applicato principi giurisprudenziali validi in ipotesi diverse e non sovrapponibili a quella di specie proprio perché sottratte, ratione temporis, all’applicazione dell’art. 26. La normativa del 2015, prosegue la Corte non è intervenuta ad alterare la natura dell’atto di dimissioni come negozio unilaterale recettizio “ma richiede – ai fini dell’efficacia dell’atto – il rispetto di determinate forme (di natura telematica), salvo che le dimissioni (e la risoluzione consensuale) intervengano in sede assistita o avanti alla Commissione di certificazione”. L’obiettivo della modifica legislativa risiede, da un lato, nell’esigenza di arginare il fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco conferendo all’atto di recesso una data certa; dall’altro, di garantire che la volontà del dipendente di risolvere il contratto di lavoro si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente. La Cassazione ha quindi ribadito la piena operatività ed efficacia delle dimissioni solo se esperite attraverso la procedura telematica senza ammettere eccezioni a tale regola. Ci si domanda però se una diversa valutazione non possa invece essere ammessa in tutti quei casi in cui il lavoratore – pur non osservando la procedura telematica – tenga una condotta palesemente idonea a manifestare la volontà di non proseguire il rapporto assentandosi dal lavoro per diverso tempo senza dare alcuna notizia di sé. In un caso siffatto il datore di lavoro si trova nella difficile condizione di dover scegliere se licenziare il lavoratore per assenza ingiustificata – sopportando i costi oltre che il rischio di un’impugnazione del recesso – o attendere sine die che il lavoratore decida di dimettersi. Invero, nel 2022 il caso è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito del Tribunale di Udine che, con una pronuncia rimasta isolata (sentenza n. 20 del 27 maggio 2022), ha inteso qualificare come risoluzione per fatti concludenti la reiterata ed intenzionale assenza di un dipendente finalizzata al solo scopo di essere licenziato. Oggi la questione è al vaglio del legislatore: il Governo ha infatti presentato alle Camere un Disegno di Legge che interviene a modificare proprio l’art. 26 del D.lgs. 151/2015. La proposta prevede che in caso di assenza ingiustificata di un lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre cinque giorni, il rapporto debba intendersi risolto per volontà del lavoratore senza che trovi applicazione la procedura telematica. Tale novità, ad avviso di chi scrive, deve essere accolta con favore perché interverrebbe ad arginare l’ormai sempre più diffuso fenomeno delle assenze preordinate al fine di ottenere il licenziamento ed accedere al trattamento di disoccupazione. Allo stato, non resta dunque che attendere l’evoluzione e la conclusione dell’iter legislativo.
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26/02/2024


Il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con l’unica eccezione per la giusta causa, deve essere preceduto dall’avviso a cui il datore è tenuto nel rispetto del termine fissato dalla legge, dai ccnl o, in subordine, dagli usi e secondo equità. Il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di cercare da subito un nuovo impiego per sopperire alla perdita imminente del posto di lavoro e il preavviso è dovuto anche in caso di dimissioni. La funzione del preavviso è di attenuare le conseguenze del recesso per chi lo subisce. La stessa funzione è da attribuirsi all'indennità sostitutiva da corrispondere nell'ipotesi di violazione del preavviso e che non va risarcire un danno in senso giuridico, ma un danno in senso economico. Il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso è compatibile con il risarcimento dei danni da assenza di giusta causa o giustificato motivo di recesso: sono due diritti sorretti da diverse funzioni e che possono essere fatti valere contemporaneamente.
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19/02/2024


la Cassazione ha recentemente affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore che, rifiutando il trasferimento disposto dalla società, si ripresenta in servizio nella sede di originaria adibizione. l dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per non aver ottemperato all'ordine di trasferimento ad altra sede lavorativa e per aver, successivamente, manomesso i registri elettronici degli orari di ingresso ed uscita. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo le predette condotte tanto da gravi da essere lesive del vincolo fiduciario. La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che risulta lesivo del vincolo fiduciario un comportamento come quello tenuto dal dipendente che aveva rifiutato di dar seguito all’ordine di servizio di trasferimento. Per la sentenza, infatti, la validità del provvedimento aziendale non risulta inficiata dalla circostanza che sia stato notificato al lavoratore mentre lo stesso era in malattia. Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, la condotta del dipendente risulta aggravata dal fatto che lo stesso al termine della malattia, non solo aveva deliberatamente ripreso servizio presso la sede di originaria adibizione, ma aveva anche dolosamente falsato il registro contenente gli orari di ingresso al lavoro. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal dipendente e conferma la legittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.
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12/02/2024


Secondo la Corte di giustizia UE il lavoratore che non abbia potuto fruire di tutti i giorni di ferie prima della cessazione del rapporto di lavoro ha diritto alla monetizzazione delle stesse (indennità sostitutiva delle ferie). Con una recente sentenza del 18 gennaio 2024, nella causa C-218/22, scaturita da un rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale Lavoro di Lecce in relazione ad una controversia tra il Comune di Copertino e un dipendente dimissionario con un residuo di 79 giorni di ferie non godute e non monetizzate dal datore di lavoro, la Corte ricorda che solo nel caso in cui il lavoratore si sia astenuto dal fruire dei suoi giorni di ferie deliberatamente, sebbene il datore di lavoro lo abbia invitato a farlo, informandolo del rischio di perdere tali giorni alla fine di un periodo di riferimento o di riporto autorizzato, il diritto dell’Unione non osta alla perdita di tale diritto. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire dei giorni di ferie annuali retribuite ai quali aveva diritto, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti costituiscano una violazione del diritto comunitario (rispettivamente, dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88, nonché dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia europea è sostanzialmente in linea con gli approdi più recenti della giurisprudenza nazionale. Cassazione civile sez. lav. 27/11/2023, n. 32807, aveva infatti già affermato che le dimissioni volontarie del lavoratore non possono configurare un’ipotesi automatica di rinuncia all’indennità sostitutiva per ferie non godute, precisando al riguardo che la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: I) di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario formalmente; II) di averlo nel contempo avvisato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire III) del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, sicché, dovendosi intendere il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti economici sostitutivi come essenzialmente volto a contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole, nessun valore di rinuncia all’indennità sostitutiva delle ferie può, in definitiva, essere automaticamente attribuito alle dimissioni del lavoratore, atto volontario posto dalla disciplina sullo stesso piano delle altre vicende risolutorie del rapporto di lavoro. Conclusioni: alla luce di tutto quanto sopra, è fondamentale per il datore di lavoro ricordare ai propri dipendenti l’importanza del godimento delle ferie annuali retribuite ed incentivare una razionale pianificazione delle stesse; diversamente, qualora il datore di lavoro non dimostri quanto sopra, il lavoratore deve essere risarcito.
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06/02/2024


La modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia.
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18/01/2024


Il dipendente di una Banca che agevola operazioni di credito tra clienti dell’Istituto, a cui quest’ultimo è del tutto estraneo, tiene una condotta che costituisce giusta causa di recesso e, pertanto, può essere legittimamente licenziato. Tale principio è stato enunciato con la recentissima sentenza n. 109 del 3 gennaio 2024 dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha integralmente confermato la pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva, invece, riformato la decisione di primo grado. Nel caso in esame, nel corso delle indagini preliminari che avevano condotto all’apertura di un procedimento penale nei confronti della direttrice della filiale di una Banca, era emerso che la stessa aveva posto in essere plurimi e ripetuti comportamenti finalizzati ad agevolare l’attività e gli affari privati di un facoltoso cliente dell’Istituto, il quale accordava finanziamenti onerosi ad altri clienti di quest’ultimo. In particolare, dall’inequivocabile contenuto delle intercettazioni telefoniche disposte in sede penale risultava con chiarezza che la direttrice non si era limitata a mettere in contatto tra loro i suddetti soggetti a tal fine (condotta, già di per sé, senz’altro censurabile, considerato che – com’è noto – l’erogazione di prestiti rappresenta un’attività precipua svolta dalle Banche), ma aveva anche assunto un ruolo centrale nella vicenda. Infatti, la stessa – anche durante l’orario di lavoro e all’interno dei locali dell’Istituto – era solita tenere i rapporti con entrambe le parti, partecipare attivamente alle trattative tra di esse (nell’ambito delle quali era individuata come unica figura di riferimento), fornire loro consigli ed indicazioni, nonché gestire le reciproche conflittualità, adoperandosi al fine di assicurare il buon esito delle operazioni di concessione del credito. Nella fattispecie de qua, la Corte di Cassazione ha evidenziato, innanzitutto, la piena utilizzabilità, ai fini della contestazione disciplinare, dell’intera documentazione inerente alle intercettazioni estratte dal fascicolo penale dell’indagine a carico della direttrice della Banca. Ciò in quanto dette intercettazioni erano state legittimamente disposte, nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, tenuto anche conto dell’inapplicabilità in ambito civile e giuslavoristico dei limiti al loro utilizzo previsti dall’art. 270 cod. proc. pen. esclusivamente con riferimento al processo penale. In proposito, il Supremo Collegio ha osservato che era del tutto irrilevante la circostanza che la prova dell’effettiva sussistenza della condotta addebitata alla lavoratrice fosse contenuta in verbali di intercettazione che, non essendo stati trascritti all’interno di una perizia, si presentavano nella forma del c.d. “brogliaccio”. Sul punto, è stato evidenziato che – nell’accertamento dell’esistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. – il Giudice del Lavoro può fondare il proprio convincimento sulla base del materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari anche se quest’ultimo non è stato sottoposto al vaglio del dibattimento processuale, poiché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, la veridicità di detti elementi. Inoltre, la Corte di Cassazione ha rilevato che la mancata trascrizione delle intercettazioni telefoniche non valeva, in ogni caso, ad escludere la loro efficacia probatoria, in quanto quest’ultima era costituita dalle bobine e dai verbali, mentre la trascrizione si sostanziava in un’operazione meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico. Sulla scorta del suddetto materiale probatorio – la cui valutazione di merito effettuata dalla Corte d’Appello di Bologna è stata ritenuta dal Supremo Collegio scevra di vizi logico-giuridici e, quindi, insindacabile – il licenziamento della dipendente è stato considerato legittimo. Al riguardo, è stato evidenziato che la condotta della direttrice che, nello svolgimento delle sue mansioni, si era “spesa” al fine di consentire il buon esito delle operazioni di concessione del credito erogato non dall’Istituto che la stessa rappresentava, bensì di un cliente di quest’ultimo in favore di altri clienti, appariva idonea – sotto il profilo giuslavoristico – a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in ragione del ruolo di elevata responsabilità da lei ricoperto, che le avrebbe imposto di agire sempre esclusivamente nell’interesse della Banca sua datrice di lavoro. Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato che a nulla rilevava in senso contrario il fatto che la dipendente fosse stata poi assolta dall’ipotesi di reato a lei ascritta, in ragione della ben nota autonomia tra processo penale e civile, in forza della quale il Giudice civile (e, quindi, anche quello del Lavoro) ha il diritto di riesaminare in modo indipendente il materiale probatorio raccolto in sede penale senza essere vincolato dalla valutazione del medesimo ivi effettuata.
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28/12/2023


Il requisito del periculum in mora richiede la prova di un fondato timore di perdere le garanzie del proprio credito. Requisito desumibile, alternativamente, sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, egli possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio. Il periculum in mora può essere riconosciuto esistente innanzitutto quando sussista una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore stesso in rapporto all’entità del credito".
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28/12/2023


Con la recente sentenza n. 35922/23, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento di un sindacalista che, a più riprese, sulla propria pagina Facebook, aveva pubblicato post diffamatori e offensivi nei confronti della società datrice di lavoro e delle persone fisiche proprietarie e amministratrici, ritenendo ampiamente superati i limiti di tutela del diritto di critica.
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28/12/2023


In tema di variazione dell’orario di lavoro [da tempo pieno a tempo parziale e viceversa], l’art. 6, comma 8 del D.lgs. n. 81/2015 prevede che "il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento". Pur rientrando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nell'oggetto del suddetto divieto, ciò non significa che il lavoratore con orario a tempo parziale non possa essere licenziato per la suddetta causale. In tale prospettiva deve essere anzitutto chiarito che le esigenze organizzative che sottostanno alla richiesta di variazione dell'orario da parte del datore di lavoro non possono rilevare, di per sé, come ragione oggettiva - esclusiva ed autosufficiente - di licenziamento. D'altra parte, nemmeno può essere precluso al datore di lavoro l'esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di variazione dell’orario di lavoro entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966, possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In questo caso, tuttavia, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare la sussistenza delle esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può essere più mantenuta, nonché' il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento. Il datore di lavoro deve altresì dimostrare che non esistano ulteriori soluzioni occupazionali [o altre alternative orarie] rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento.
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28/12/2023


Il tempo che il lavoratore impiega per indossare la divisa aziendale deve essere considerato orario di lavoro se soggiace al potere di conformazione del datore di lavoro che lo regolamenta e dirige. I giudici rimarcano che l’eterodirezione sussiste non solo quando è presente una esplicita disciplina d’impresa in merito, ma anche quando questa risulta implicitamente dalla natura degli indumenti. Aggiungono quindi che l’eterodirezione si evince inoltre dalla funzione specifica degli indumenti stessi e comunque sussiste se differiscono da quello che viene definito “criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.
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07/12/2023


Ai fini del controllo del giustificato motivo oggettivo di #licenziamento, in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di #riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l'effettività della #scelta effettuata a valle con la soppressione di un unico posto di #lavoro, diventa necessario approfondire (ed è onere del #datore di lavoro indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato #lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se vi sono ruoli comparabili. ↔ Le ragioni della decisione: Nel caso di specie la Corte di #merito - ad avviso della #Cassazione - ha violato le regole in materia di accertamento del necessario collegamento causale tra la ragione #oggettiva addotta e la soppressione del posto di #lavoro, e dell'effettività della ragione economica "comunque addotta" dal datore di lavoro a fondamento del #licenziamento per motivi economici. Posto che – prosegue la Suprema Corte - se è stata ipotizzata una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi, diviene necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro di indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se si trattava di ruoli comparabili in quanto parimenti non previsti in #organico. Ciò del resto appare logico e coerente ai fini del controllo sul #GMO in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l'effettività della scelta effettuata a valle con la #soppressione del unico posto di lavoro (peraltro già soppresso precedentemente, nel caso di specie); senza che questo trasmodi in indebita interferenza con la #discrezionalità delle scelte datoriali.
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07/12/2023


Niente licenziamento per il dipendente che con l’auto aziendale si rechi a cambiare indumenti e che nel frattempo si fermi al mercato a fare la spesa.
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10/10/2023


Con l’ordinanza suddetta, la Cassazione afferma che vanno retribuiti i tempi impiegati dagli infermieri per la vestizione e la svestizione della divisa e per il passaggio di consegne, essendo riferibili ad una diligente effettiva prestazione di lavoro. Il fatto affrontato Gli infermieri ricorrono giudizialmente al fine di ottenere la retribuzione per le operazioni di vestizione e svestizione e di passaggio di consegne, aventi una durata stimabile in circa 20 minuti per ogni giornata lavorativa. La Corte di Appello accoglie la predetta domanda, riconoscendo però una durata inferiore delle predette attività pari a 10 minuti giornalieri. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che va computato nell'orario di lavoro, con conseguente diritto alla retribuzione aggiuntiva, il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa nel luogo di lavoro, nell’ipotesi in cui tale operazione sia importa dal datore per motivi igienici. Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, va considerato meritevole di ricompensa economica anche il tempo impiegato per il cambio di consegne nel passaggio di turno, in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all'esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest'ultimo la continuità terapeutica. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società datrice, confermando il diritto degli infermieri a vedersi riconosciute le differenze retributive richieste.
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09/10/2023


Il controllo sulle e-mail del lavoratore da parte del datore di lavoro è illegittimo anche se attuato “a scopo difensivo” – ovvero per provare una condotta illecita del dipendente –quando il datore di lavoro non dimostri che il controllo è stato posto in essere in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito da parte del dipendente. Statuendo tale principio la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un dirigente fondato su prove raccolte tramite un controllo a distanza costituito dal monitoraggio della cartella di posta elettronica del lavoratore. In particolare, il datore di lavoro aveva appreso – attraverso la lettura di alcune e-mail inviate dal dirigente – che questi aveva, in violazione del dovere di fedeltà e diligenza, intrattenuto rapporti con la concorrenza. Alla contestazione di tali condotte era conseguito il recesso in tronco che era stato prontamente impugnato in giudizio dal lavoratore. La Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto il recesso illegittimo poiché il datore di lavoro aveva raccolto le prove, poste a base degli addebiti, tramite un controllo sulla posta elettronica del dipendete senza però dimostrare l’esistenza – “ex ante” – di validi motivi che avevano determinato la necessità di tale indagine. La Cassazione, innanzi alla quale il datore di lavoro aveva impugnato la suddetta decisione, ha confermato l’illegittimità del controllo effettuato dalla società datrice (e quindi, a cascata, l’illegittimità del licenziamento) esprimendo i seguenti interessanti principi: 1) i controlli a distanza posti in essere dal datore di lavoro e diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, non sono soggetti ai limiti ed alle prescrizioni previste dall’art. 4 Stat. Lavoratori; 2) fermo restando ciò, per essere lecito, tale controllo deve essere “attuato ex post”, ossia “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto”, perché solo a partire “da quel momento” il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili. Infatti, solo la sussistenza di tale “fondato sospetto” dimostra che il controllo a distanza non era diretto ad un generale monitoraggio dell’attività lavorativa del dipendente, quanto piuttosto “mirato” ad accertare prefigurate condotte illecite commesse dal lavoratore; 3) nel caso in cui i controlli a distanza siano posti in essere in assenza del fondato sospetto che il dipendente abbia commesso un illecito, gli stessi non saranno utilizzabili anche ai sensi della normativa sulla privacy. In sostanza, perché i controlli a distanza c.d. difensivi siano legittimamente posti in essere, è obbligatorio che sussista una sorta di un incipit che giustifichi il ricorso a tali controlli pena invalidità della successiva sanzione disciplinare adottata. Tale incipit è identificato in una serie di indizi (la cui sussistenza deve essere provata dal datore) che fanno presumere che il dipendente abbia già commesso degli illeciti prima che il datore di lavoro svolga i controlli a distanza. Nel caso di specie, come detto, la datrice di lavoro non aveva provato che il dirigente, antecedentemente ai controlli sulla sua posta elettronica, aveva posto in essere comportamenti tali da far sorgere il sospetto che un illecito fosse in atto. Di conseguenza, il licenziamento è stato ritenuto invalido in quanto basato su indagini che non potevano utilizzate ciò indipendentemente dal fatto che, all’esito di tali controlli, fosse effettivamente emerso che il dipendente aveva commesso condotte disciplinarmente rilevanti.
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03/10/2023


La Corte d’Appello di Catanzaro confermava una pronuncia di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo del Tribunale di Vibo Valentia, emesso per retribuzioni e TFR non percepiti da un lavoratore. Motivava detto rigetto affermando che l’accordo conciliativo, stipulato tra le parti davanti al Prefetto di Vibo Valentia, alla presenza di un rappresentante sindacale (accordo che, nella logica transattiva, prevedeva, fra gli altri, modalità e tempistiche di pagamento solo di parte di detti compensi), non era idoneo a rendere le rinunce non impugnabili ai sensi dell’art. 2113 cc. Secondo la Corte territoriale, in particolare, la Prefettura di Vibo Valentia non costituiva una delle sedi sindacali ex art. 2113 cc e l’accordo in questione non rispettava le modalità di stipulazione di cui all’art 412-ter cpc. Contro tale decisione proponeva ricorso per cassazione la società datrice di lavoro, censurando, per quanto qui rileva, la sentenza laddove aveva ritenuto impugnabile l’accordo conciliativo in questione, fondandosi principalmente sulla sede e non – come avrebbe dovuto – sulla effettiva assistenza del sindacalista di fiducia del lavoratore. Gli Ermellini hanno, però, rigettato l’impugnativa, evidenziando, innanzitutto, che in tema di rinunce e transazioni nell’ambito di un rapporto di lavoro, per la inoppugnabilità delle rinunce, ai sensi dell’art. 2113 cc, della conciliazione intervenuta ex artt. 185, 410 , 411, 412 ter e 412 quater cpc è decisiva la effettività dell’assistenza sindacale, finalizzata a porre il lavoratore in condizione di conoscere pienamente l’oggetto delle proprie rinunce. In secondo luogo, i Giudici di legittimità hanno affermato che la Corte di merito non aveva escluso in astratto la validità di accordi come quello sottoscritto tra le parti davanti al Prefetto, alla presenza di un rappresentante sindacale, limitandosi soltanto a ritenere la fattispecie non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 412-ter c.p.c., non trattandosi, in ogni caso, di conciliazione giudiziale o davanti alle Commissioni di conciliazione o in sede arbitrale. Tale non riconducibilità – hanno proseguito i Giudici di legittimità – derivava, però, in concreto, proprio dalla valutazione del difetto di effettiva assistenza sindacale (che emergeva dagli atti di causa), desumibile anche dalla sede non prettamente sindacale in cui era stato raggiunto l’accordo e dalla mancata previsione di modalità contrattuali collettive cui parametrare tale valutazione.
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18/09/2023


...il danno alla persona che si sarebbe aggravato non poteva definirsi imprevedibile per mancanza della relativa prova, dato che l'appellante non aveva fornito nel corso del giudizio di primo grado alcuna prova circa il preteso imprevedibile aggravamento delle proprie condizioni di salute post transazione; ne' la consulenza di parte prodotta dal ricorrente in primo grado era idonea a provare l'asserita imprevedibilita' del prodotto aggravamento; e tanto non emergeva neanche dalla documentazione allegata dall'appellante alla nota tecnica di aggravamento..
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15/09/2023


Il Tribunale di Bari, est. Vicenzo Maria Tedesco, con articolata sentenza ha messo in dubbio l'orientamento espresso dalla Suprema Corte in merito alla decorrenza della prescrizione in corso di rapporto post Legge Fornero, ritenendo che la riformulazione dell'art. 18 contenuta nella suddetta legge, garantisca, comunque, una adeguata stabilità al rapporto di lavoro, mantenendo il diritto alla reintegra in ipotesi di licenziamento ritorsivo e, dunque, motivato dall'esercizio, da parte del lavoratore, del diritto alle differenze retributive.
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01/09/2023


Per i dipendenti Trenitalia sì al risarcimento per il lavaggio non al tempo tuta potendosi presentare già in divisa
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29/08/2023


✅ La richiesta da parte del datore di lavoro di turni di reperibilità in misura di gran lunga superiore al massimo previsto dal CCNL comporta un'intollerabile sproporzione quantitativa della prestazione di lavoro e, conseguentemente, la violazione dei canoni di correttezza e buona fede. ✅ Il danno è in re ipsa (cd danno-evento), configurandosi la violazione del diritto al riposo e dunque della personalità morale del lavoratore protetta dall'art. 2087 c.c. ✅ Non vi è pertanto necessità che il lavoratore provi alcunché in ordine ai pregiudizi patiti, poiché l'obiettiva misura dell'impegno lavorativo accertata in concreto determina "la negazione in sé di un tratto della vita personale e dunque un danno alla personalità morale del lavoratore, per essersi perduto il riposo ed essersi in tal modo realizzata una interferenza illecita nella sfera giuridica inviolabile altrui" ✅ In definitiva, l'abnormità della prestazione lavorativa configura ipso iure una lesione dei beni personalissimi del lavoratore meritevole di risarcimento in termini di danno da usura psico-fisica, essendo "fuorviante pretendere necessariamente l'esistenza di perdite-conseguenze diverse".
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08/08/2023


la S. C. ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente che aveva molestato verbalmente una giovane collega in due diverse occasioni, attraversi chiare allusioni a sfondo sessuale che avevano minato la libertà della ragazza. In particolare, i Giudici di merito avevano ritenuto infondate le giustificazioni fornite dall’uomo secondo cui le frasi incriminate non avevano alcuna volontà offensiva e si inserivano all’interno di un clima goliardico che si era instaurato tra i due giovani, posto che il comportamento addebitato al ricorrente era comunque non desiderato dalla collega ed era altresì oggettivamente idoneo a ledere e violare la dignità della donna, costituendo giusta causa di licenziamento, ponendosi correttamente nella prospettiva della vittima e non in quella del molestatore. Avverso tale pronuncia, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, sottolineando, da un lato, l’assenza, nelle sue parole, della volontà di offendere la collega, e, dall’altro, l’inattendibilità di quest’ultima, alla luce anche del provvedimento di archiviazione disposto dal GIP in riferimento alla denuncia sporta dalla ragazza in ordine al reato di stalking. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo condivisibili le premesse giuridiche dalle quali è partita la Corte territoriale che si è mossa nella cornice della definizione di molestie come prevista dall’art. 26 del d.lgs. n.198/2006, considerando molestie quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Applicando tale definizione al caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che la condotta posta in essere dall’uomo verso la nuova collega fosse oggettivamente indesiderata (anche se a tale comportamento non erano seguite effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale), e integrasse quel concetto di molestia, definito dalla norma richiamata, che si fonda sulla oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto, «con assenza di rilievo della effettiva volontà di recare una offesa».
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04/08/2023


La S.C. con recentissima decisione, è ritornata sulle conseguenze in termini di responsabilità civile per il notaio in caso di violazione dei peculiari doveri connessi alla sua prestazione professionale. Infatti, con la decisione n.23600 del 2.8.2023, la 2^ sez. della Cassazione, ha ritenuto il notaio responsabile in quanto ha omesso di chiarire agli acquirenti tutte le conseguenze, anche potenzialmente negative, cui gli stessi sarebbero potuti andare incontro per effetto dell’accollo del mutuo, dato che questi ultimi, appunto in quanto privi di cognizioni tecniche specifiche, erroneamente ritenevano che, con la vendita e l’accollo del mutuo da parte dell’acquirente, si sarebbero liberati del mutuo, e pertanto avevano rinunciato all’ipoteca legale, ma tale loro aspettativa è rimasta frustrata in quanto la parte acquirente, dopo aver pagato la prima rata del mutuo, rivendeva l’immobile ad un terzo, parimenti resosi inadempiente. Per i giudici di legittimità, infatti, il notaio avrebbe dovuto chiarire ai venditori la differenza tra un accollo meramente interno, ed un accollo esterno liberatorio, non potendosi certo tale distinzione, foriera di importanti effetti giuridici per le parti, ricavare dal mero capitolato del mutuo; il rilievo di tale informazione, e la conseguente incidenza sulla violazione del dovere di consiglio e la discendente responsabilità civile del notaio, è stato dalla Corte evidenziato affermando che il corretto assolvimento del dovere di consiglio risulta funzionale al corretto assolvimento del compito istituzionale del notaio, quello di assicurare che l’atto rogato sia idoneo a svolgere la sua funzione tipica ed a permettere agli stipulanti di conseguire il risultato voluto. La pronuncia in questione appare indubbiamente corretta e condivisibile, ove si tenga presente, da un lato, che l'obbligo di informazione e consiglio costituisce un contenuto essenziale della prestazione professionale demandata dall’ordinamento al notaio e, dall’altro, quale conseguenza di tale premessa, che la violazione del relativo obbligo assurge fonte di responsabilità traducendosi nella violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., che vengono in rilievo quali criteri determinativi e integrativi della prestazione contrattuale, conseguentemente imponendo al notaio il compimento di tutto quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi delle parti contraenti.
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02/08/2023


Nel condominio le realizzazioni tecniche devono rispettare il decoro dell’edificio. Lo conferma la Cassazione nell’ordinanza 17290/2023. A originare il caso una condòmina che citava in giudizio il vicino per ottenere la rimessione in pristino dell’edificio dalle opere da lui realizzate consistenti nella trasformazione di luci in vedute, nell’abusiva realizzazione di una fognatura e nell’indebito allargamento di uno spazio di isolamento, edificato in danno della condomina, sconfinando nella sua proprietà. Il vicino, negando di avere compiuto le opere, ribaltava il tutto presentando domanda riconvenzionale con cui affermava che le opere illegittime erano state invece realizzate proprio dalla sua vicina, opere che stravolgevano la facciata con la copertura ad intonaco e il cambiamento degli infissi. Pertanto ne chiedeva la rimozione anche se le opere erano state autorizzate dal Comune. Il Tribunale in primo grado aveva riconosciuto le ragioni della condomina, non così la Corte di appello che riformava la sentenza e le ordinava la riduzione in pristino dell’esterno del fabbricato. Via la copertura con intonaco andava ripristinato l’originario stato con pietre a vista. La Corte di appello osservava che la copertura con intonaco della metà superiore della palazzina era una innovazione, che avrebbe richiesto il consenso dell’altro condòmino vicino, essendo tale da alterare il decoro architettonico dell’edificio. La Cassazione rigettava il ricorso della proprietaria, in particolare, nel motivo per cui il rifacimento dell’intonaco aveva riguardato le sole parti dell’edificio in cui insisteva la sua abitazione, con la costruzione di un cappotto termico, per l’efficientamento energetico della struttura. La Suprema corte rilevava che, nonostante la condomina sottolineasse che le facciate dei due piani si sarebbero presentate sin dall’origine non omogenee, il pregiudizio all’aspetto estetico dell’edificio era evidente e l’intervento di efficientamento energetico non bastava a giustificarlo. Risultava lesa l’armonia e l’unità delle linee di stile, rilevante anche per i fabbricati che non rivestono particolare pregio artistico o estetico. Inoltre l’alterazione architettonica delle linee decorative e delle caratteristiche estetiche non necessariamente deve implicarne la radicale deturpazione che rappresenta un di più rispetto alla semplice e rilevante menomazione o deterioramento (Cassazione ordinanza 18928/2020). Condivisibile perciò la condanna in appello alla riduzione in pristino.
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31/07/2023


La Corte di Cassazione, torna sul delicato tema dell'inadempimento dell'obbligo informativo gravante sull'intermediario finanziario nei contratti relativi a servizi di investimento, giungendo ad affermare la sussistenza di una vera e propria presunzione del nesso di causalità tra violazione dell'obbligo informativo da parte dell'intermediario finanziario e il pregiudizio patrimoniale subito dall'investitore. A dire dei Giudici: "… al riscontro dell'inadempimento degli obblighi di corretta informazione consegue l'accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra il detto inadempimento e il danno patito dall'investitore". Tale conclusione, che di fatto si pone in continuità con l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità, troverebbe la propria ragion d'essere nel complessivo quadro normativo in materia e, in particolare, come chiarito dalla stessa Suprema Corte con l'ordinanza in commento, nella "… funzione assegnata dal sistema normativo all'obbligo informativo gravante sull'intermediario che è preordinato al riequilibrio dell'asimmetria strutturale del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell'investitore, al fine di consentirgli una scelta di investimento realmente consapevole". Ciò significa che, una diversa interpretazione delle norme in materia, condurrebbe a ignorare la funzione specifica dell'obbligo posto a carico dell'intermediario, che è proprio quella di colmare l'asimmetria informativa tra il cliente e l'intermediario. La Cassazione ha poi rilevato che l'intermediario può superare tale presunzione, fornendo la prova che il pregiudizio si sarebbe comunque concretizzato, anche nell'ipotesi in cui l'investitore avesse ricevuto le informazioni omesse. Particolarmente rilevante è la circostanza che la Corte abbia ritenuto di precisare che tale prova "non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell'investitore", desunta da scelte pregresse ribadendo - anche in questo caso - quanto affermato dalla più recente giurisprudenza (cfr. Cassazione, ordinanza 11549/2020 e n. 7288/2023) che impone una verifica più rigorosa, sul presupposto che, anche l'investitore più esperto e con "propensione a rischio alta", deve poter selezionare - sulla base delle informazioni fornite dall'intermediario - tra i vari investimenti offerti dal mercato, valutando, tra quelli rischiosi, gli investimenti che garantiscono una maggiore probabilità di successo. Affermati tali principi, la Suprema Corte - con l'ordinanza in commento - ha accolto il ricorso dell'investitore, statuendo che la banca non era stata in grado di dimostrare in giudizio il superamento della presunzione del nesso causale, mostrando così di non condividere l'impostazione dei giudici di appello che, pur riconoscendo l'inadempimento degli obblighi informativi da parte dell'intermediario, lo aveva ritenuto irrilevante e privo di conseguenze sul presupposto che si trattasse di un cliente incline agli investimenti ad alto rischio: valutazione che - peraltro - si riferiva ad un periodo successivo alla data in cui era stato effettuato l'investimento. Prende, quindi, sempre più forza il principio per cui l'intermediario finanziario è tenuto a prestare una consulenza personalizzata, tale da consentire all'investitore di conseguire una conoscenza concreta ed effettiva del prodotto finanziario proposto, affinché il suo consenso sia pienamente consapevole, come del resto previsto dall'art. 31 del Regolamento Consob 16190/2007; ne consegue che l'intermediario finanziario sarà responsabile per avere omesso di avvertire, in modo specifico, l'investitore circa i rischi dell'operazione prospettata.
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20/07/2023


Tribunale di Torino ha riconosciuto il diritto alla NASPI del lavoratore che dimessosi per giusta causa a cauda di un trasferimento della sede di lavoro ad oltre 50 km, non ritenendo necessario l'instaurazione di un giudizio volto a far accertare l'illegittimità del provvedimento datoriale. In particolare, l'Inps aveva negato la NASPI al lavoratore, non essendo il rapporto cessato per risoluzione consensuale, come invece richiesto dal messaggio n. 369/2018. Il Tribunale, al contrario, ha ritenuto illegittima la prassi dell'Inps, dovendo equipararsi le dimissioni per giusta causa alla risoluzione consensuale, in caso di trasferimento ad oltre 50 km di distanza, dovendo considerarsi, in entrambi i casi, il rapporto cessato per causa non imputabile al lavoratore e, dunque, involontariamente.
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20/07/2023


Attraverso l’ordinanza 18455/2023, la Corte di Cassazione si esprime sulla genuinità di un appalto, precisando gli specifici presupposti alla quale è subordinata. Questa non può prescindere dalla verifica del fatto che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato autonomo, da conseguire con un’organizzazione del lavoro effettiva e indipendente. Se i poteri direttivo e organizzativo sono affidati al committente, al contrario si materializza un appalto illecito di manodopera. ❗️ I giudici però sottolineano che se l’appaltatore utilizza capitale, attrezzature e macchine fornite dell’appaltante, si ha uno pseudappalto solo se l’apporto dell’appaltatore diviene marginale o accessorio, elemento che va concretamente accertato dal giudice. Se quindi l’appaltante fornisce macchinari e attrezzature, ma è l’appaltatore a conferire capitale ulteriore per sostenere il costo del lavoro, assumendo rilievo preminente, l’appalto va comunque ritenuto genuino.
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20/07/2023


Il licenziamento di un dipendente part-time che, nell’orario di lavoro supplementare, rifiuta di frequentare un corso di formazione sulla sicurezza è da considerarsi legittimo. Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20259/2023. I giudici sottolineano come con la dizione di orario di lavoro, rimandando al dlgs. 81/2008, ci si riferisca a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro”, quindi anche in caso di attività prestata in orario eccedente a quello ordinario. Elementi quali “sicurezza” e “salute” rendono indispensabili la formazione del dipendente, per cui risulta irragionevole una lettura rigida del concetto di orario di lavoro, come quello presentato dal dipendente.
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