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26/11/2024


Con la sentenza in commento, la Corte d’Appello di Milano, nel confermare la pronuncia di primo grado che aveva negato a un lavoratore il diritto – nei confronti del nuovo appaltatore/datore di lavoro – alle differenze retributive derivanti da un superiore inquadramento (riconosciuto da una sentenza della stessa Corte nei confronti del precedente datore di lavoro/appaltatore), ha enunciato un importante principio di diritto (ribadito in altri “precedenti” giurisprudenziali): nel caso di cambio appalto ai sensi dell’art. 29, comma 3, del D.Lgs. 276/03, diversamente dal trasferimento d’azienda ex art. 2112 cod. civ., si instaura un nuovo rapporto di lavoro con effetto novativo, impermeabile alle vicende del precedente rapporto. Pertanto, una sentenza che riconosce un determinato inquadramento nell’ambito del precedente rapporto di lavoro non può fare stato nei confronti del nuovo datore di lavoro, rimasto estraneo a quel giudizio. La controversia aveva ad oggetto un caso di successione negli appalti, nel cui ambito il lavoratore ricorrente asseriva che l’inquadramento superiore riconosciutogli giudizialmente con riferimento al precedente rapporto di lavoro dovesse automaticamente applicarsi anche al nuovo rapporto instaurato con l’azienda subentrante nell’appalto. La Corte, nel rigettare le censure mosse dal lavoratore alla motivazione della sentenza di primo grado, dopo avere enunciato il summenzionato principio di diritto, ha evidenziato che la clausola dell’accordo sindacale, in forza della quale è avvenuto il “passaggio” dei lavoratori già impiegati nell’appalto alle dipendenze del nuovo appaltatore e che prevedeva l’impegno all’assunzione da parte di quest’ultimo “alle stesse condizioni”, va interpretata considerando l’inquadramento formalmente attribuito a detti lavoratori così come risultante da un elenco allegato al verbale di accordo sindacale al momento del cambio appalto, non quello successivamente riconosciuto in via giudiziale in relazione a vicende lavorative riguardanti il precedente rapporto (a cui il nuovo appaltatore era estraneo). Per ottenere un inquadramento superiore nell’ambito del nuovo rapporto di lavoro, il lavoratore avrebbe quindi dovuto dimostrare in giudizio l’effettivo svolgimento di mansioni corrispondenti al superiore livello rivendicato, cosa che nel caso di specie l’interessato non ha fatto (non avendo formulato istanze istruttorie finalizzate a fornire detta prova).
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26/11/2024


la Corte di Cassazione sottolinea che il lavoratore che denuncia l’ipotesi di mobbing è tenuto, tra le altre cose, anche a dimostrare l’intento persecutorio che determina la complessiva illegittimità delle condotte e la responsabilità contrattuale di chi le ha poste in essere.
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20/11/2024


Licenziamento disciplinare senza una preventiva contestazione: reintegrato il lavoratore L’assenza della preventiva contestazione inficia l’intero procedimento disciplinare e, in caso di licenziamento, determina il diritto alla reintegra per il lavoratore. Il difetto di contestazione dell’infrazione determina, in materia di licenziamento disciplinare, l’inesistenza dell’intero procedimento e non solo l’inosservanza delle norme che lo regolano. Secondo i Giudici di legittimità, pertanto, in assenza di contestazione si rientra nell’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, per cui l’art. 18, comma 4, L. 300/1970 prevede la tutela reintegratoria.
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18/11/2024


La decisione affronta il caso di un grave svuotamento di mansioni, protrattosi per 7 anni (e ancora di più a ritroso), dal 2006 al 2013, a fronte del quale è stato riconosciuto un risarcimento a carico della società convenuta, la RAI, con riflessi sia sul profilo professionale, sia sul profilo biologico. L’intricata vicenda, approdata in Cassazione trascinata da ben otto motivi di ricorso da parte della RAI è stata risolta a favore della lavoratrice, con dovizia di argomentazioni, tra inammissibilità e infondatezza delle ragioni addotte dalla società ricorrente.
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14/11/2024


il licenziamento senza contestazione dà diritto alla reintegra anche nelle piccole imprese. Con la sentenza n. 10104 del 12.10.2024, il Tribunale di Roma afferma che, in caso di licenziamento disciplinare irrogato senza una preventiva contestazione, si integra, non già una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma, bensì una vera e propria nullità, che genera sempre il diritto del lavoratore alla reintegra (sul punto si veda: Corte Costituzionale: il licenziamento nullo porta sempre alla reintegra). Caso. Il lavoratore, pasticcere presso un esercizio commerciale avente meno di 15 dipendenti, impugna giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli. 
A fondamento della domanda, il medesimo deduce – tra le altre cose – la violazione della procedura di cui all’art. 7 della L. 300/1970, avendo parte datoriale omesso di contestargli preventivamente l’addebito. Il Tribunale di Roma rileva, preliminarmente, che il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano. Invero, secondo il Giudice, l’avere proceduto ad irrogare il recesso in assenza di una coerente e specifica fattispecie accusatoria, al di fuori delle regole procedimentali previste per legge, priva il lavoratore di strumenti di difesa essenziali. Per la sentenza, in casi del genere, trova applicazione la tutela reintegratoria anche nelle imprese sotto i 15 dipendenti, integrandosi una ipotesi di nullità c.d. virtuale, ossia non espressamente prevista dalla legge, ma generata dalla contrarietà della condotta a norme imperative. Su tali presupposti, il Tribunale di Roma – ritenendo integrata detta nullità, stante il mancato rispetto del procedimento dettato a garanzia del dipendente – accoglie il ricorso dal medesimo presentato e condanna parte datoriale alla sua reintegrazione.
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14/11/2024


Il committente è obbligato in solido con il fornitore ai sensi dell’art. 29 D.lgs. n. 276/2003, anche se il contratto non è di appalto, bensì atipico. È questo il principio espresso dalla recente pronuncia della Cassazione n. 26881/2024, secondo la quale, ciò rileva ai fini della solidarietà nel debito fra committente e fornitore, non è tanto l’esatta qualificazione del contratto, ma la necessità di verificare se vi sia un meccanismo di decentramento e di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che possa giustificare una applicazione della garanzia di cui all’art. 29 D.lgs. n. 276/2003. Sotto questo profilo, un ruolo importante nella verifica da svolgere riveste la individuazione dell’interesse economico concreto, di una parte contrattuale rispetto all’altra, sotteso alla realizzata operazione di decentramento produttivo e di dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa: interesse da valutarsi avendo riguardo ad una eventuale sussistenza di una situazione di “dipendenza economica” e di assunzione di un maggior “rischio di impresa”, nel senso che deve essere accertato se lo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti sia eccessivo essendo il contraente che lo subisce privo di valide scelte alternative economiche sul mercato. La Corte ha pertanto statuito che in ipotesi di contratto atipico, a causa mista, adottato nella prassi della grande distribuzione commerciale, in cui la titolare dell’impresa ceda la gestione di un autonomo reparto, non preesistente, ad altra ditta, con particolari obblighi contrattuali a carico di quest’ultima, va verificato, analizzando gli elementi caratterizzanti il contratto, l’interesse economico concreto della operazione onde accertare se si verta in una ipotesi di decentramento e di dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che giustifichi la responsabilità solidale ai sensi dell’art. 29 D.lgs. n. 276/2003.
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12/11/2024


La Corte di Cassazione interviene sulla necessità di fare distinzione, ai fini dell’indennizzo per il dipendente, tra infortunio in itinere e infortunio sul lavoro. Nel caso in questione, un lavoratore si era infortunato nel corso di uno spostamento verso un cantiere, dopo essersi recato presso la sede aziendale. I giudici di merito di primo e secondo grado avevano negato l’indennizzabilità dell’infortunio, qualificandolo come un infortunio in itinere. I giudici, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, sottolineano che se lo spostamento è funzionale all’attività lavorativa e avviene durante l’orario di lavoro, esso deve essere considerato come parte integrante della prestazione.
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12/11/2024


Sulla base dei principi affermati dalla Corte Costituzionale sin dal 1966, la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nell’ambito dei rapporti di lavoro è strettamente connessa alla tutela che l’ordinamento prevede in favore dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Se esaminiamo lo stato attuale della normativa che regola i licenziamenti e ciò che resta dei tentativi legislativi di ridurre le ipotesi di riconoscimento in favore del lavoratore della tutela reintegratoria, sorge spontaneo domandarsi se possa ritenersi ancora giustificato far decorrere la prescrizione dalla cessazione del rapporto, secondo il consolidato orientamento formatosi nella giurisprudenza in materia. In proposito, fino all’entrata in vigore della Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), il regime della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori si diversificava a seconda della tutela di cui potevano fruire i lavoratori creditori. In estrema sintesi, per tutti coloro a cui non si applicava l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori la prescrizione decorreva a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro in considerazione della pressione psicologica patita dal lavoratore, idonea a scoraggiare il lavoratore dal far valere le proprie pretese nei confronti del datore di lavoro. Per i lavoratori a cui si applicava, invece, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, la prescrizione decorreva anche in costanza di rapporto. Come è noto, l’attenuazione della tutela reintegratoria conseguente alle modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori dalla Riforma Fornero ha indotto la giurisprudenza a ritenere che il carattere eccezionale dei casi in cui il lavoratore potesse essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi del modificato art. 18 della Legge n. 300/1970 dovesse comportare la decorrenza della prescrizione dal momento della cessazione del rapporto di lavoro per tutti i lavoratori, superando ogni distinzione tra dipendenti tutelati dall’art. 18 e gli altri dipendenti. La motivazione di tale orientamento giurisprudenziale era rappresentata proprio dal venire meno della tutela reintegratoria quale tutela “ordinaria” generalizzata per i lavoratori ed era stata ribadita anche dopo la Riforma del Jobs Act, posto che la disciplina del contratto a tutele crescenti introdotta dal D.Lgs. 23/2015 aveva confermato la tendenza a prevedere una tutela prevalentemente “obbligatoria” (indennitaria) contro i licenziamenti illegittimi. Gli effetti di tale orientamento sulla decorrenza della prescrizione espongono tuttora le aziende al rischio di rivendicazioni retributive relative ad anni anche molto risalenti, nei confronti delle quali non è sempre agevole potersi difendere anche nei casi di crediti di dubbia fondatezza, attesa la difficoltà di reperire informazioni e documenti a distanza di molti anni dai periodi a cui le pretese dei lavoratori si riferiscono. La situazione, tuttavia, è profondamente mutata negli ultimi anni a seguito dei ripetuti interventi giurisprudenziali che hanno progressivamente smantellato l’impianto delineato dalla Riforma Fornero e dal Jobs Act. Ci riferiamo in particolare alle sentenze della Corte Costituzionale n. 59/2021 (che ha escluso ogni potere discrezionale in capo al giudice in ordine alla possibilità di reintegra del lavoratore prevista dall’art. 18, comma 7, in caso di insussistenza manifesta del fatto posto a base del licenziamento) e n. 125/2022 (che ha esteso la tutela reintegratoria in tutti i casi di insussistenza del fatto posta a base del licenziamento per motivo oggettivo, anche non “manifesta”), all’orientamento consolidato della Corte di Cassazione secondo il quale anche la mera violazione dell’obbligo di repechage determina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché alle recenti sentenze della Corte Costituzionale n. 22/2024 (che ha esteso la tutela reintegratoria ex art. 2 del D.Lgs. 23/2015 a tutti i casi di nullità anche non “espressamente” previsti dalla legge), n. 128/2024 (che ha esteso la tutela reintegratoria ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fondati su un fatto materiale rivelatosi poi insussistente) e n. 129/2024 (che ha ritenuto applicabile la tutela reintegratoria per i contratti a tutele crescenti anche ai licenziamenti disciplinari per fatti punibili con una sanzione conservativa ai sensi della contrattazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro). Se consideriamo l’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, è allora lecito dubitare del fatto che la reintegrazione nel posto di lavoro rappresenti, oggi, un’ipotesi residuale di tutela, mentre sono da reputarsi, invece, limitati i casi di applicazione della tutela meramente obbligatoria o indennitaria. Tocca alla giurisprudenza, a questo punto, rivedere il proprio orientamento, non essendo più giustificabile non fare decorrere la prescrizione in costanza di rapporto per lavoratori effettivamente assistiti dalla tutela reale.
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07/11/2024


la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui il danno morale, inteso come sofferenza interiore priva di fondamento medico legale perchè non avente base organica, risulta una posta autonomamente risarcibile del complessivo danno non patrimoniale, distinta dal danno biologico e dalla sua personalizzazione. Si legge, in particolare, in sentenza: "secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 901 del 2018, Cass. n. 7513 del 2018; Cass. n. 23469 del 2018), in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, anche personalizzato, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (definibili come danni morali) che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione); parimenti il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di beni-interessi diversi dalla salute ma costituzionalmente tutelati può essere liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore)".
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05/11/2024


La Corte di Cassazione, ha stabilito che è illegittima la proroga di un contratto a termine (con conseguente trasformazione a tempo indeterminato) che non si limita a prolungare, senza soluzione di continuità, la durata del rapporto precedente, ma con la quale vengono rinegoziate le condizioni e i termini del rapporto (nel caso di specie la trasformazione da tempo parziale a tempo pieno, con variazione delle mansioni e modifica della retribuzione), trattandosi di rinnovo richiedente l’apposizione di una causale. La proroga e il rinnovo esprimono concetti differenti, nello specifico: · con la proroga viene prolungata l’efficacia di un contratto in essere, proseguendone l’esecuzione oltre la scadenza originaria, con una modifica limitata unicamente alla durata del rapporto preesistente; · con il rinnovo la volontà delle parti non incide soltanto sulla durata ma sulla stessa identità causale del rapporto, attraverso una rinegoziazione più o meno ampia del contratto, con carattere novativo o modificativo.
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29/10/2024


Un dipendente addetto a vigilanza privata veniva licenziato per giusta causa per un ritardo nella presentazione sul luogo di lavoro e la Suprema Corte risponde all'obiezione del dipendente circa una asserita tenuità del fatto in relazione alle previsioni del CCNL affermando che la valutazione del giudice di merito deve anche tenere in conto la proporzionalità della sanzione. In tema di licenziamento disciplinare, la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso in riferimento a condotte comunque rispondenti ai modelli previsti dalle fattispecie, ovvero ridotto, qualora ve ne fossero alcune non corrispondenti e, dunque, nulle per violazione di norma imperativa, con la conseguenza che il giudice non può limitarsi alla verifica della riconducibilità del fatto addebitato ad una previsione contrattuale essendo tenuto a valutare in concreto la condotta e la proporzionalità della sanzione.
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23/10/2024


La conciliazione “tombale” in sede protetta non impedisce la successiva rivendicazione della natura subordinata del pregresso rapporto di lavoro, trattandosi di valutazioni giuridiche non vincolanti né confessorie. È questo il principio espresso dalla recente pronuncia della Cassazione n. 26891/2024, secondo la quale, è ben essendo possibile che nel contenuto complessivo di una transazione si distingua anche un momento accertativo della situazione di fatto preesistente. In tal caso, le relative dichiarazioni di scienza hanno valore confessorio, purché abbiano ad oggetto la ricognizione di situazioni fattuali o di situazioni giuridiche considerate sub specie facti (quali un preesistente negozio, un contratto, una promessa) e non già valutazioni giuridiche. Secondo principio consolidato da epoca risalente nella giurisprudenza di legittimità, la transazione con la quale il lavoratore riconosca il carattere autonomo, anziché subordinato, del rapporto di lavoro intercorso con la controparte fino ad una certa data, da cui essa si obblighi ad assumerlo, resta soggetta alla disciplina dell'art. 2113 c.c. solo per la parte di rinuncia del lavoratore a diritti già acquisiti e non anche per la parte di rinuncia a diritti non ancora maturati. In particolare, la categoria dei diritti indisponibili – cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l'art. 2113 c.c. – comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della ratio sottesa alla disposizione codicistica a tutela del lavoratore quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria. I suenunciati principi di diritto, applicati alle conciliazioni in sede sindacale tra le parti del 9 gennaio 2015 e del 15 dicembre 2017 – di concorde cessazione del rapporto fino a quel momento decorso e di avvio, con effetto novativo di una collaborazione di analoga natura (così al penultimo capoverso di pg. 10 della sentenza) e correttamente interpretate, tanto dall’ordinanza in fase sommaria tanto dalla sentenza in quella di opposizione, come esclusivamente regolanti i diritti maturati fino alla loro stipulazione, ma non preclusivo dell’accertamento della natura del rapporto dal momento della loro sottoscrizione fino alla data del recesso, neppure oggetto di impugnazione dal lavoratore e pertanto, la disciplina dell’art. 2 d.lgs. 81/2015.
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22/10/2024


Con la sentenza n. 3430/2024, il Tribunale di Bari, in una controversia patrocinata dallo studio, ha rigettato il ricorso di un lavoratore che richiedeva il pagamento dell'elemento perequativo previsto dal CCNL Metalmeccanici, attraverso un'accurata disamina degli oneri di allegazione e prova gravanti sull'attore in merito agli elementi costitutivi della pretesa come definiti dal CCNL stesso. In particolare, si legge in motivazione: "Dal testo di detto articolo può ricavarsi come due siano sostanzialmente le condizioni perché sorga il diritto in capo a un lavoratore del settore metalmeccanico a detto elemento perequativo: 1) in azienda deve mancare una contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato o altri istituti retributivi comunque soggetti a contribuzione (e, nel caso di specie, è incontestata una tale circostanza quantomeno per gli anni oggetto della richiesta attorea ossia a partire dal 2015); 2) la percezione da parte del dipendente nel corso dell'anno precedente di un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal c.c.n.l. in argomento (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione). E’ parimenti rilevante osservare che la sussistenza di questi presupposti deve essere provata, sulla base del principio di cui all’art. 2697, comma 1, c.c. dal lavoratore. Ciò posto va osservato che parte ricorrente all’interno del ricorso non ha fatto alcun riferimento alla sussistenza di tali due presupposti di fatto e che l’insussistenza del secondo presupposto è stata specificamente contestata dalla resistente la quale, all’interno della sua memoria, ha fatto presente, su punto, di aver la corresponsione dell’indennità ISLO nel corso del rapporto. La corresponsione di tale posta, non prevista dal contratto collettivo applicato, è al contrario documentata dal 2016 alla cessazione del rapporto proprio sulla base dei cedolini paga (afferenti, appunto, il periodo successivo al 2016) depositate dallo stesso ricorrente e risulta, dai medesimi cedolini, sottoposta a contribuzione".
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22/10/2024


La sentenza affronta il tema della tempestività nella contestazione disciplinare nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato. La Corte ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma, che aveva giudicato tardiva la contestazione disciplinare mossa al dipendente da parte di una società di trasporti, poiché era stata notificata circa due mesi dopo il fatto contestato. La Cassazione ha ribadito il principio dell'immediatezza nella contestazione, essenziale per garantire il diritto alla difesa del lavoratore, e ha stabilito che la complessità organizzativa dell'azienda non giustificava il ritardo.
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22/10/2024


La Corte di Cassazione ha espresso un principio condivisibile, e certamente non innovativo , affermando che la sentenza gravata ha compiuto l'accertamento di fatto demandatole e valutato le prove relative all'interno dei noti principi di diritto; ha ritenuto non provata dal datore di lavoro (sul quale incombe il relativo onere) la giusta causa di recesso, valutando le accertate attività della lavoratrice in malattia al di fuori del domicilio in fatto (per la loro marginalità, la lavoratrice era andata a fare la spesa fuori dalle fasce di reperibilità e presso una sala giochi) inidonee a provare la simulazione di malattia. Ha richiamato la giurisprudenza propria e di legittimità in materia granitica, secondo cui lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente durante lo stato di malattia configura la violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede se sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia ovvero qualora in relazione alla natura delle patologie delle mansioni svolte possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio; Ha semplicemente valutato, secondo il criterio di riparto dell'onere della prova della giusta causa di licenziamento e di incompatibilità del comportamento tenuto dal lavoratore durante il periodo di malattia, che, non essendo stata svolta una visita di verifica durante gli orari di reperibilità, sulla base del solo pedinamento la prova dell'incompatibilità tra la malattia dichiarata e l'attività ludica marginale in due occasioni, al di fuori della fascia di reperibilità, fosse carente; ha, cioè, ritenuto non dimostrato che la lavoratrice si fosse assentata dal lavoro in malafede, simulando la malattia certificata per aver fatto la spesa fuori dagli orari di reperibilità e essersi recata presso una sala giochi. La Corte analizzando il caso specifico non ha mai sostenuto e sottolineo mai che la natura simulata della malattia o lo svolgimento di attività durante la malattia che possa pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente può essere dimostrato dal datore solo attraverso l'esito di una "visita fiscale" escludendo la validità di eventuali pedinamenti disposti dall'azienda nei confronti del lavoratore, ha semplicemente ritenuto che le circostanze poste a fondamento del licenziamento impugnato nel caso di specie, essendo marginali non erano sufficienti a ritenere assolto l'onere probatorio a carico del datore.
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22/10/2024


la Cassazione afferma che, ai fini di ritenere integrato un intento fraudolento ed un uso abusivo del rapporto di lavoro a termine, è necessaria la presenza di elementi ulteriori rispetto al dato, del tutto insufficiente, rappresentato dal numero dei contratti e dall'arco temporale della loro stipula. Il fatto affrontato Alcuni dipendenti ricorrono giudizialmente al fine di sentir dichiarata l’illegittimità del termine apposto ai loro contratti di lavoro. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo che il solo numero dei contratti a tempo determinato e l'arco temporale in cui si erano succeduti rappresentavano elementi insufficienti per poter ritenere integrata una frode alla legge. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che all'accertamento dell'utilizzazione abusiva del contratto a tempo determinato si può addivenire attraverso una ricostruzione degli elementi allegati nel processo che, congiuntamente valutati, devono convergere nel far ritenere provato un intento fraudolento del datore di lavoro. In particolare, per la sentenza, il giudice di merito – cui è demandata detta indagine – può desumere l'uso deviato e fraudolento dell’istituto in questione da elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l'arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti. Secondo i Giudici di legittimità, non è ravvisabile la fraudolenza, laddove - quantomeno nel settore marittimo oggetto della fattispecie di causa - fra la cessazione di un contratto e la stipulazione di quello successivo intercorra un periodo superiore ai sessanta giorni. Su tali presupposti, la Suprema Corte – non ritenendo sufficienti gli elementi acquisiti per provare l’intento fraudolento della società – rigetta il ricorso proposto dai lavoratori.
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16/10/2024


Ai soci lavoratori di cooperativa si applicano in primo luogo le regole speciali previste dalla legge n. 142/2001 ed in secondo luogo le comuni regole previste dalle altre leggi di disciplina del lavoro in quanto compatibili con la posizione di socio lavoratore per come delineata dalla legge medesima. Nessuna incompatibilità sussiste ai fini del riconoscimento al socio lavoratore di cooperativa con contratto di lavoro subordinato del diritto al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c.”. Il fatto affrontato Il dipendente, socio e lavoratore presso una cooperativa, ricorre giudizialmente per ottenere il pagamento – tra le altre cose – del trattamento di fine rapporto. La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, sul presupposto che il TFR non è mai assorbibile in ragione delle somme globalmente corrisposte al lavoratore, in eccedenza rispetto alle previsioni del CCNL applicabile. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che ai soci lavoratori di cooperativa si applicano anzitutto le speciali regole previste dalla Legge 142/2001. In aggiunta a queste, continua la sentenza, si applicano le regole comuni previste dalle altre leggi di disciplina del lavoro, in quanto compatibili con la posizione di socio lavoratore come delineata dalla citata legge 142/2001. Secondo i Giudici di legittimità, da un lato, all’interno di detta normativa non si rinviene alcuna speciale previsione circa l’attribuzione del diritto al TFR e, dall’altro lato, non vi sono presupposti per affermare che il riconoscimento del trattamento di fine rapporto sia incompatibile con la posizione di socio lavoratore di cooperativa. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla cooperativa, confermando il diritto del socio lavoratore a vedersi riconosciuto il TFR.
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15/10/2024


Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’utilizzabilità, ai fini disciplinari, dei filmati tratti dal sistema di videosorveglianza aziendale, tema sempre attuale e oggetto di un vivo dibattito in giurisprudenza e dottrina. La vicenda in commento trae origine dal licenziamento comminato ad un lavoratore che, in due diversi episodi, non aveva consegnato il resto ai clienti e non aveva registrato gli esuberi di cassa, come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza aziendale. Il lavoratore, che aveva eccepito l’illegittimità del controllo aziendale, era risultato soccombente nel giudizio di secondo grado ed aveva impugnato la sentenza di appello, eccependo che le immagini sarebbero state inutilizzabili in quanto l’accordo sindacale che aveva autorizzato l’installazione del predetto sistema di videosorveglianza consentiva al datore di lavoro di visionare le immagini solo in presenza di un reclamo della clientela, nella specie mancante. Inoltre, il lavoratore aveva altresì dedotto che le immagini sarebbero state estratte in modo non conforme alle previsioni della legge n. 48/2008, recante una specifica procedura finalizzata a garantire la genuinità delle immagini registrate, nonché in quanto non sarebbe stata realizzata una “copia forense” dei dati informatici prodotti in giudizio. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza di che trattasi, ha rigettato il ricorso del lavoratore. In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che dal testo dell’accordo sindacale risultava che il reclamo del cliente non era necessario nel caso in cui la finalità di visionare le immagini fosse quella di tutelare il “patrimonio aziendale”, la cui nozione può essere integrata, altresì, dalla commissione, da parte del dipendente, di condotte potenzialmente rilevanti sotto il profilo penale o comunque idonee a pregiudicare l’immagine del datore di lavoro (come quelle che erano state contestate al lavoratore ricorrente). Quanto, invece, alle ulteriori doglianze del lavoratore, la Cassazione le ha rigettate perché inconferenti (posto che la legge n. 48/2008 riguarda i crimini informatici e contiene previsioni operanti nell’ambito dei soli procedimenti penali) e generiche (posto che il lavoratore non aveva dedotto specifiche circostanze idonee a comprovare la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta). Da ultimo si segnala un interessante principio di diritto affermato incidentalmente dall’ordinanza in commento in un obiter dictum: secondo la Suprema Corte, infatti, nell’ipotesi in cui nell’autorizzazione all’installazione degli impianti rilasciata dall’ITL dovesse essere previsto il divieto di utilizzo di tali sistemi per l’eventuale adozione di provvedimenti disciplinari, le immagini sarebbero comunque utilizzabili anche ai fini disciplinari alla luce delle previsioni contenute nell’art. 23 del D. Lgs. n. 151/2015 e nell’art. 5 del D. Lgs. n. 185/2016, che hanno modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Ciò a condizione che sia stata data al lavoratore adeguata informazione delle modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e che sia stato rispettato quanto disposto in materia di protezione dei dati personali dal D. Lgs. n. 196 del 2003. In conclusione, la Corte di Cassazione ha ritenuto utilizzabili le informazioni raccolte attraverso l’impianto di videosorveglianza installato dal datore di lavoro, anche ai fini disciplinari, e ha rigettato il ricorso del lavoratore.
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14/10/2024


Per la subordinazione non basta lo stabile inserimento sul posto di lavoro, se non accompagnato dalla prova sulle direttive ricevute dal lavoratore. È questo il principio espresso dalla recente pronuncia della Cassazione la quale – cassando con rinvio la sentenza impugnata – ha espresso il principio di diritto per cui ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, occorre avere riguardo al concreto atteggiarsi del potere direttivo del datore, il quale, per assurgere a indice rivelatore della subordinazione, non può manifestarsi in direttive di carattere generale (compatibili con il semplice coordinamento sussistente anche nel rapporto libero professionale), ma deve esplicarsi in ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, stabilmente inserita nell'organizzazione aziendale. Peraltro, in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l'assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell'atteggiarsi del rapporto; sicché, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari: ✔️ continuità delle prestazioni; ✔️ dell'osservanza di un orario determinato; ✔️ del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita; ✔️ del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro; ✔️ dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale. Nel caso di specie tutti i testimoni escussi avevano semplicemente dato atto della continuità di presenza nei locali aziendali del lavoratore, senza nulla dichiarare in ordine all’esercizio del potere direttivo su di lui da parte del superiore gerarchico, così incorrendo la sentenza della Corte d’Appello di Roma, così incorrendo in un evidente errore di diritto, per violazione in particolare dell'art. 2697 c.c., facendo applicazione più unica che rara dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. L’art. 2697 c.c. è, infatti, censurabile per cassazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata. Ed è proprio l’ipotesi ricorrente nel caso di specie, per avere la Corte capitolina erroneamente invertito l’onere probatorio: in totale assenza, per le ragioni dette, della positiva dimostrazione, a carico del lavoratore della natura subordinata della prestazione di attività resa, essa ha accertato l’esistenza di un rapporto lavorativo subordinato tra le parti per non avere la parte datoriale assolto l’onere, indubbiamente a suo carico, di gratuità della prestazione lavorativa.
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07/10/2024


La fattispecie all'attenzione del Supremo Collegio si colloca tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che devono necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell'art. 4 statuto lavoratori novellato in tutti i suoi aspetti; risultando nella specie autorizzata l'installazione dell'impianto, si pone la questione della utilizzabilità delle informazioni - le riprese visive - così raccolte "a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro" (art. 4, u.c., statuto lavoratori) e, quindi, anche ai fini dell'esercizio dell'azione disciplinare. Le informazioni raccolte attraverso impianti di videosorveglianza installati previo accordo con le organizzazioni sindacali, anche se concernenti potenziali illeciti penali commessi dai dipendenti, sono utilizzabili per fini disciplinari, trattandosi di controlli a difesa del patrimonio aziendale, purché siano rispettate le condizioni dell'adeguata informazione al lavoratore e della conformità al D.Lgs. n. 196 del 2003.
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01/10/2024


la Cassazione ribadisce il seguente principio di diritto: “la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”. Il fatto affrontato Il lavoratore impugna giudizialmente l’accordo conciliativo sottoscritto con la società, ex art. 2103 c.c., in cui era stata concorda la riduzione della retribuzione al fine della conservazione dell’occupazione. La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, ritenendo invalido il predetto accordo perché non stipulato in una sede protetta, bensì all’interno dell’azienda seppur alla presenza del rappresentante sindacale. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che, in tema di accordi conciliativi aventi ad oggetto diritti indisponibili, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale, che deve essere deve essere effettiva per consentire al dipendente di esprimere un consenso informato e consapevole, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene. Per la sentenza, infatti, si tratta di concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire, da un lato, la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e, dall’altro, l’assenza di condizionamenti di qualsiasi genere. Secondo i Giudici di legittimità, pertanto, non può considerarsi valida una conciliazione che, invece di essere sottoscritta in una delle sedi protette normativamente previste (la sede giudiziale, le commissioni di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, le sedi sindacali, i collegi di conciliazione e arbitrato), venga conclusa in azienda, seppur alla presenza del rappresentate sindacale. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società, ritenendo invalida l’impugnata conciliazione.
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25/09/2024


Il principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare riflette l'esigenza di osservare le regole di buona fede e correttezza nel rapporto di lavoro, impedendo al datore di lavoro di procrastinare la contestazione in modo da rendere difficoltosa la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sul rapporto. Tuttavia, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, tenendo conto della specifica natura dell'illecito disciplinare e del tempo necessario per le indagini, soprattutto in relazione alla complessità dell'organizzazione aziendale. La valutazione del giudice di merito in relazione alla tempestività è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata e priva di vizi logici. Il requisito dell'immediatezza nella contestazione disciplinare va interpretato con ragionevole elasticità. Il giudice deve applicare tale principio tenendo conto del comportamento del datore di lavoro alla luce degli artt. 1375 e 1175 cod. civ., e può discostarsi eccezionalmente da tale principio, indicando correttamente le ragioni della non tempestività laddove giustificata da circostanze particolari.
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20/09/2024


la Cassazione afferma che, nel rapporto di agenzia, l’indennità relativa al patto di non concorrenza può essere erogata anche attraverso un compenso di natura provvigionale, con anticipi in corso di rapporto, salvo conguaglio finale. Il fatto affrontato L’agente ricorre giudizialmente al fine di chiedere il pagamento dell'indennità per patto di non concorrenza post-contrattuale di durata biennale a seguito delle dimissioni rassegnate il 1° luglio 2020. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo che l’indennità in questione non dovesse essere corrisposta separatamente dalle provvigioni ed al termine del rapporto di agenzia. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che la corresponsione di una indennità all'agente non è prevista a pena di nullità del patto di non concorrenza post-contrattuale. Invero, per la sentenza, la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile, in quanto non presidiata da una sanzione di nullità espressa e non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale. Secondo i Giudici di legittimità, pertanto, se è derogabile la dazione dell’indennità quale corrispettivo per l’impegno assunto dall’agente è, a maggior ragione, derogabile la modalità di liquidazione e di pagamento della stessa. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dall’agente e conferma la legittimità della clausola inerente la liquidazione anticipata dell’indennità in corso di rapporto.
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16/09/2024


Il datore di lavoro non può procrastinare la contestazione disciplinare in modo da compromettere il diritto alla difesa del lavoratore o perpetuare l’incertezza. I giudici sottolineano come il principio di immediatezza della contestazione, “la cui ‘ratio’ riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro”, non consente la procrastinazione dal momento che l’immediatezza è un elemento costitutivo del diritto di recesso del datore stesso in caso di licenziamento per giusta causa. Il criterio di immediatezza, aggiungono i giudici, va inteso in senso relativo, dal momento che va tenuto conto della “specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini”, che risulta “tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione azienda
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13/09/2024


Ha diritto al risarcimento del danno il dipendente che svolga la prestazione lavorativa oltre i limiti massimi previsti dalla contrattazione collettiva per il lavoro straordinario Il superamento dei limiti orari massimi integra la violazione dell'art. 36 Cost., con la conseguenza che il danno da usura psico-fisica sussiste ipso iure (danno-evento) La liquidazione del danno deve essere determinata in via equitativa dal Giudice L'importo risarcitorio può essere determinato applicando i parametri indicati dalle Tabelle Milanesi per il danno da inabilità temporanea, con riferimento alla voce "sofferenza soggettiva"
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13/09/2024


Anche ove il contratto collettivo applicato non lo preveda, il datore di lavoro deve avvisare il dipendente che sta superando il periodo di comporto, qualora nelle buste paga fosse indicato un numero di assenze per malattia inferiore a quelle effettive. Ciò ove la circostanza sia idonea - nel contesto - a generare nel lavoratore un ragionevole affidamento sul numero di assenze conteggiate dalla società, tale da poter qualificare il mancato avvertimento come condotta contraria a buona fede. Non appare dirimente il fatto che il dipendente avrebbe potuto verificare, in autonomia, il numero di assenze effettive accedendo al sito internet dell’INPS. La pronuncia conferma Corte d’Appello di Roma 20/09/2021 che avevo precedentemente segnalato (Link nel primo commento sotto). Va osservato che le due decisioni non intendono espressamente alterare il principio secondo il quale - salve specifiche previsioni dei contratti collettivi - il datore di lavoro non ha alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto. Lo applicano però nel caso specifico nel senso dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede. La questione della buona fede è una delle più complesse ed ha negli ultimi lustri ritrovato una seconda giovinezza, soprattutto nell’ambito del Diritto del Lavoro. Mi ha ad esempio colpito tempo fa Cass. 04/12/2020 n. 27913 nella quale si legge: “Tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile (ndr. l’art. 2087 c.c.) si giustifica alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., già da epoca risalente, Cass. nn. 7768/95; 8422/97), sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute – art. 32 Cost., sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio – artt. 1175 e 1375 c.c., disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro”. Va detto che lo stesso può rilevare anche a beneficio del datore di lavoro. Sul punto rinvio alla mia riflessione “La quantificazione del danno nel caso di “incolpevole” illegittimità del licenziamento”, in Labor - Il Lavoro nel diritto Aggiornamenti 13 agosto 2023 (Link nel primo commento sotto) A me pare che la giurisprudenza degli ultimi anni sta subendo una virata verso un modello di common law. Favorisce il processo il “consolidarsi” di alcuni principi (giuridici) generali - di sapore tipicamente anglosassone. Tuttavia il parallelo consolidarsi di alcune discipline “di conformità” estremamente dettagliate - sovente presidiate da authority - pone il tema della coesistenza di due tecniche tradizionalmente alternative.
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10/09/2024


Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, infatti, non sono deducibili a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno le somme che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, la cui eventuale non debenza dà luogo ad un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall'istituto previdenziale (Cass., sez. lav., 5 marzo 2020, n. 6369). E, nell'ambito specifico della disciplina di tutela per l'illegittimità del licenziamento, si è affermato che a titolo di aliunde perceptum rilevano solo i redditi conseguiti attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa, nella qualità di incrementi patrimoniali del danneggiato valutabili quali conseguenza immediata e diretta del licenziamento stesso e quindi rilevanti in termini di compensato lucri cum damno (cfr. Cass., sez. lav., 31 ottobre 2022, n. 32130; id., 19 giugno 2018, n. 16136). Prestazioni pensionistiche o di natura previdenziale, quali indennità di mobilità o di disoccupazione, se percepite dal lavoratore, si pongono, invece, su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che possono derivare al dipendente per effetto del licenziamento quando però impieghi altrimenti la propria capacità lavorativa, e la loro eventuale non spettanza può dar luogo solo ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge (v. anche Cass., sez. lav., 15 maggio 2018, n. 11835; id., 27 marzo 2017, n. 7794).
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09/09/2024


Il Tribunale di Milano, Sez. lav., con la sentenza 19 giugno 2024, n. 3143, nel pronunciarsi in materia di responsabilità solidale in caso di appalto di opere o servizi, ha confermato l’orientamento secondo cui la decadenza del diritto di azione nei confronti della committente può essere impedita anche con comunicazione stragiudiziale inviata alla committente stessa entro il termine di due anni dalla cessazione dell'appalto. ⁣ La committente, però, risponde solo dei crediti di natura strettamente retributiva maturati dal personale dell'appaltatore nel corso dell'esecuzione dell'appalto. ⁣ La sentenza offre, poi, un’interessante disamina dei criteri utili per distinguere contratto di appalto e contratto di trasporto.⁣
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05/09/2024


Ciò che conta, per la quantificazione del danno da riduzione della capacità lavorativa specifica del lavoratore autonomo, è il reddito dichiarato. Nel caso in questione, la controversia aveva per oggetto il calcolo del risarcimento per la capacità lavorativa ridotta di un lavoratore autonomo, vittima di un sinistro stradale, che sosteneva come il risarcimento andasse calcolato sul reddito dichiarato al netto delle maggiorazioni derivanti dall’adeguamento degli studi di settore. La Corte di Cassazione conferma però la tesi già sostenuta dai giudici di merito per cui il risarcimento va calcolato sul del reddito dichiarato, senza escludere le maggiorazioni in esame, richiamando l’art. 4 del decreto legge n. 857/1976.
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04/09/2024


Con l’ordinanza in oggetto, la Cassazione afferma che il recupero delle ore di mancato riposo non può essere frazionato, dovendo essere continuativo o cumulabile con i riposi giornalieri e/o settimanali previsti. Il fatto affrontato: Il lavoratore ricorre giudizialmente al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dal mancato rispetto da parte della società datrice della normativa sul riposo minimo giornaliero di 11 ore consecutive. La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, ritenendo accertato il sistematico prolungamento dell'attività lavorativa, non intervallata da adeguati riposi tra un turno e l'altro. La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva preliminarmente che, in caso di mancato godimento del giorno libero, il riposo compensativo deve essere tempestivo e collocato attiguamente ad altri periodi di riposo. Parimenti, continua la sentenza, anche alla luce della normativa comunitaria intervenuta in materia, il riposo compensativo non può essere concesso in maniera frazionata, finendosi altrimenti per violare la finalità dell’istituto (rappresentata dal recupero delle energie psico-fisiche del dipendente). Secondo i Giudici di legittimità, un comportamento contrario ai predetti principi, con svolgimento della prestazione in violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali, produce in capo al dipendente un danno da usura psico-fisica costituzionalmente tutelato dall’art. 36. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società, confermando la debenza del ristoro richiesto dal dipendente.
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29/07/2024


la sentenza della Consulta non si limita a demolire gli ultimi pezzi del Jobs Act, ma apre due fronti di possibile contrasto con gli attuali indirizzi della Corte di Cassazione per la violazione dell’obbligo di repechage la Consulta afferma la legittimità della tutela indennitaria: la Corte di Cassazione, la cui giurisprudenza associa a questa violazione la sanzione della reintegra, cambierà indirizzo? Secondo la Consulta, se il fatto posto a base del licenziamento disciplinare è oggetto di clausole generali del CCNL non si applica la reintegra. Anche questa lettura diverge dalla giurisprudenza di legittimità, che ha esteso a tale fattispecie l’applicazione della reintegra. Ci sarà un cambio di indirizzo? Domande molto sofisticate, che fanno venire il mal di testa anche agli esperti e riportano al centro della discussione il vero tema da risolvere: la normativa è ormai ingestibile, e dovrebbe essere riscritta facendo ordine tra le troppe sentenze, modifiche e interpretazioni intervenute in questi anni Una vera e propria emergenza che va risolta presto, consentendo a tutti gli operatori e i soggetti coinvolti - aziende, consulenti, lavoratori, sindacati - di capire quali sono le regole applicabili senza avere l’ansia di sbagliare interpretazione
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16/07/2024


È ritorsivo, e dunque soggetto alla reintegra del dipendente, il licenziamento per crisi aziendale che in realtà trova motivazione nella mancata disponibilità del lavoratore di trasformare il contratto a tempo pieno in part-time. Viene così respinto il ricorso di un’azienda che opera nel settore dei supermercati contro la decisione della Corte d’Appello che aveva sottolineato come il licenziamento difettasse del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore. Da un lato non si era registrato il “costante andamento negativo” del reparto in cui il lavoratore presta servizio, dall’altro non era stata dimostrata l’impossibilità del repêchage . L’insussistenza del motivo oggettivo rivelava “l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento”, una volta accertate la contiguità temporale rispetto al rifiuto del part-time e l’iniziativa disciplinare che ne era conseguita.
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09/07/2024


Il dipendente ha diritto alla fruizione del necessario riposo che dovrà essere garantito dall’azienda, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile.
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08/07/2024


la Cassazione afferma che il dipendente che pone in essere atteggiamenti ostruzionistici rispetto all’operato aziendale lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario e, pertanto, è passibile di licenziamento. Il fatto affrontato Il lavoratore, dipendente di una società partecipata dedita all’igiene urbano, impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per essersi rifiutato di svolgere la prestazione richiesta e per aver, così, causato un ingente danno alla società datrice. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo la condotta contestata non sussumibile nel concetto di mera insubordinazione, in quanto caratterizzata da un grave e consapevole inadempimento tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale. Secondo i Giudici di legittimità, si va oltre questo concetto ogniqualvolta si è in presenza di un grave e consapevole inadempimento dei compiti assegnati, caratterizzato da un comportamento ostruzionistico del lavoratore. Per la sentenza, un comportamento di tal genere che è articolato e complesso, avendo natura commissiva ed omissiva, non può inquadrarsi nel mero rifiuto ad adempiere alle direttive dell’impresa ovvero in una correlata condotta finalizzata unicamente a pregiudicare il corretto svolgimento delle disposizioni aziendali, bensì integra atteggiamento volutamente ostruzionistico, non ragionevole e non disponibile. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal dipendente e conferma la legittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.
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05/07/2024


Secondo la decisione impugnata, anche volendo sussumere la fattispecie nel danno da custodia di animale, la danneggiata non ha provato di aver guidato, in quel momento, con particolare prudenza né che la condotta dell'animale selvatico sia stata imprevedibile e inevitabile nonostante ogni cautela. I giudici di legittimità rilevano come una simile ricostruzione sia completamente errata, infatti, il danneggiato deve allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico, provando: la dinamica del sinistro, il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, l'appartenenza dell'animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla 157/1992 o che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato (Cass. 13848/2020). Invece, il danneggiante deve allegare la prova liberatoria, ossia il caso fortuito, come l’imprevedibilità determinata dal fatto che la condotta dell'animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di controllo, operando come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno. Nel caso in esame, spettava alla Regione provare l'imprevedibilità dell'attraversamento della strada da parte dell'animale come prova liberatoria volta ad escludere la responsabilità. Parimenti, la prova che il danno sia avvenuto a causa della condotta colpevole del danneggiato, come la sua guida imprudente, rientra pur sempre nella prova del caso fortuito gravante sull’ente.
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03/07/2024


Con recente sentenza la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva effettuato e poi diffuso tramite il suo profilo Facebook una registrazione con un collega, all'insaputa di quest'ultimo, ritenendo la registrazione stessa non funzionale a una necessità difensiva. In sostanza, secondo i Giudici di legittimità, sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva e illegittima, ben potendo rientrare nell'ambito della protezione fornita dall'art. 54-bis d.lg. n. 165 del 2001, affinché ciò avvenga occorre una necessità difensiva, nel senso che il dato raccolto di nascosto sia ad esempio pertinente ad una difesa incentrata su un intento di rappresaglia per effetto della segnalazione, da sostenere nel processo ed il mezzo utilizzato non ecceda l'esercizio di tale diritto di difesa.
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03/07/2024


Se non è dimostrato che le lettere minatorie dirette all’azienda sono a lui riconducibili, è illegittimo il licenziamento del lavoratore. Il lavoratore era stato licenziato dopo che il datore aveva ritenuto che avesse scritto e diffuso, in forma anonima, due lettere offensive e diffamatorie verso il capo del personale dell’azienda. I giudici confermano però quanto stabilito dai giudici di secondo grado che hanno rilevato come non vi fosse una prova congrua in giudizio idonea a far ritenere possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità, la redazione e diffusione delle due lettere minatorie da parte del dipendente.
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03/07/2024


Illegittimo il licenziamento del lavoratore che - al momento dell’assunzione - non dichiara di avere precedenti penali
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24/06/2024


In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’obbligo di repechage è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento.
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17/06/2024


Cessato il rapporto di lavoro e fornita dal lavoratore la prova del mancato godimento delle ferie, sarò onere del datore di lavoro, al fine di opporsi all’obbligo di pagamento della indennità sostitutiva rivendicata, dimostrare di avere messo il dipendente nelle condizioni di esercitare in modo effettivo il diritto alle ferie annuali retribuite nel corso del rapporto, informandolo in modo adeguato della perdita, altrimenti, del diritto sia alle ferie e sia alla indennità sostitutiva. -
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17/06/2024


Con l’ordinanza n. 16088/2024, la Corte di Cassazione ribadisce il concetto di immediatezza della contestazione in tema di licenziamento disciplinare. I giudici rimarcano che va intesa in senso relativo, tenendo conto dei motivi che possono provocare un ritardo, tra cui il tempo necessario per accertare i fatti e la complessità della struttura organizzativa dell’impresa. La valutazione è riservata al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, quando sorretta da una motivazione adeguata a priva di vizi logici.
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27/05/2024


Nella causa in questione il Tribunale di Nocera Inferiore ha confermato la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente da una Società. In sintesi, il lavoratore era caduto all’interno dell’unità produttiva e, a seguito di ciò, si assentava per infortunio superando il limite di conservazione del posto di lavoro (cd. periodo di comporto) di 180 giorni previsto dall’art. 188 del CCNL Terziario della Distribuzione e dei Servizi. La società, pertanto, procedeva al licenziamento per i motivi sopra esposti e il lavoratore lo impugnava giudizialmente sull’assunto che la caduta era imputabile ad uno stato non idoneo della pavimentazione con la conseguenza che, dovendosi ravvisare una responsabilità aziendale, le assenze per infortunio non potevano essere computate ai fini del periodo di comporto. Nel corso del procedimento la Società dimostrava, da un lato, di aver approntato tutte le misure antinfortunistiche prescritte fornendo scarpe antiscivolo e altri dispositivi di protezione individuale nonché di aver attrezzato l’unità produttiva con un pavimento antisdrucciolo e, dall’altro, che la caduta era dovuta ad un evento accidentale non imputabile allo stato della pavimentazione. Il Tribunale, sulla base delle prove fornite dalla Società, ha escluso, pertanto, elementi di illegittimità del licenziamento non essendo stata peraltro provata, in senso opposto da parte del lavoratore, una condotta colposa del datore di lavoro riconducibile, in termini di nesso eziologico, con l’infortunio subito.
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10/05/2024


È valido l’accordo collettivo aziendale nel quale si prevede, a fronte della rinuncia datoriale ai licenziamenti per motivo oggettivo per un periodo di 12 mesi, che l’indennizzo risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo (individuale e collettivo) intimato dopo il periodo interdetto è contenuto in una soglia tra 1.500 e 3.000 euro. Fermo il diritto del lavoratore alla reintegrazione, la misura del risarcimento prevista dalle norme di legge può essere derogata tramite accordo di prossimità (art. 8 L. 148/2011)
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06/05/2024


La Suprema Corte ribadisce l'importanza della neutralità della sede di conciliazione sindacale per garantire la libera determinazione della volontà del lavoratore. La Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico riguardante la validità di un accordo di conciliazione stipulato tra un'azienda e un suo dipendente. La sentenza mette in luce l'importanza della neutralità della sede di conciliazione e il ruolo essenziale dell'assistenza sindacale effettiva nel proteggere i diritti dei lavoratori.
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30/04/2024


Questa Corte è costante nell’affermare che, una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma dell'accipiente, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal lavoratore (Cass. n. 4512 del 1992). 4. L'obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dall'art. 1 della legge 5 gennaio 1953 n. 4, di consegnare ai lavoratori dipendenti all'atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell'avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata, l'onere dimostrativo di tale non corrispondenza può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore Firmato Da: SECCHI ENRICO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: 58259cabe729f6b3706ddb96e6ff710c Firmato Da: ADRIANA DORONZO Emesso Da: ARUBAPEC EU QUALIFIED CERTIFICATES CA G1 Serial#: fe51f5a0767894c87756bedad83caf5 Numero registro generale 10638/2023 Numero sezionale 807/2024 Numero di raccolta generale 10663/2024 Data pubblicazione 19/04/2024 4 di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti (Cass. n. 1150 del 1994). 5. La Corte territoriale, con valutazione di merito insindacabile in questa sede di legittimità, ha accertato che la documentazione prodotta dal datore di lavoro (busta paga, bonifici) non era sufficiente a provare l’estinzione del debito riportato nella busta paga di novembre 2015. 6. La violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, interamente gravante sul datore di lavoro che intendeva liberarsi dell’obbligo retributivo.
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22/04/2024


......Occorre allora ricordare e ribadire che, nell'accerta mento del mobbing, «l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito fa condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto ...; a tal fine fa legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere fa condotta, unitariamente considerata» (Cass. n. 26684/2017). In aItri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l'intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell'elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all'isolamento del lavoratore. Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico-legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018); che è quanto avvenuto nel caso di specie, in mancanza di una valutazione sul significato complessivo dei fatti singolarmente esaminati e sulla base di un giudizio generico e atecnico sulla «sensibilità personale» della ricorrente che ha sostituito l'esame delle risultanze della c.t.u.. Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, non rientrano tra le nozioni di fatto di comune esperienza «quelle valutazioni che, per fa specificità scientifica e l'assenza di un'acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi» (Cass. n. 15159/2019). ll giudice del merito può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall'esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche.
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11/04/2024


Con l’ordinanza n. 8626/2024, la Corte di Cassazione stabilisce che mentre spetta al lavoratore la prova della mancata fruizione delle pause lavorative, sul datore di lavoro incombe l’obbligo di provare il godimento del riposo compensativo nell’arco del mese. La ripartizione dell’onere della prova punta a garantire un equilibrio tra i diritti dei lavoratori e gli obblighi datoriali, assicurando l’adempimento dei doveri contrattuali da parte di entrambe le parti.
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11/04/2024


Corte di Cassazione, ordinanza n. 8381/2024: la mancata comunicazione al datore di lavoro del nuovo indirizzo va punita con la multa e non con il licenziamento e quindi va reintegrato e risarcito il dipendente che ha avuto esito negativo alla visita di controllo durante il periodo di malattia. Viene esclusa nel caso specifico l’assenza ingiustificata: il lavoratore ha comunicato al numero verde dell’Inps l’indirizzo dove sarebbe stato reperibile per la visita. Il medico dell’ente ha però tentato il controllo ad un recapito diverso, senza successo.
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28/03/2024


Con una recente sentenza, il Tribunale di Reggio Emilia ha sostenuto che grava sul lavoratore, il quale lamenti di aver subito “mobbing”, l’onere di allegare e provare sia la sussistenza di plurime condotte illegittime, sia la circostanza che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione. Il Tribunale, richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte – secondo la quale, ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime (Ordinanza Cassazione, 9 giugno 2020, n. 10992) – ha ritenuto che, nel caso di specie, il lavoratore non aveva provato né la sussistenza dell’asserita dequalificazione, né la sussistenza di condotte illegittime poste in essere dal datore di lavoro, né l’esistenza di un disegno persecutorio unificante preordinato alla prevaricazione. Inoltre, il Giudice di prime cure ha specificato che, nel caso esaminato, non era neppure individuabile una responsabilità del datore di lavoro per aver consentito il mantenimento di un ambiente di lavoro stressogeno, tale da incidere sulla salute del lavoratore. In particolare, nella valutazione del caso concreto, il Tribunale ha ritenuto che tutte le sanzioni disciplinari comminate al lavoratore nell’arco di un ventennio erano giustificate, perché derivanti da contestazioni collegate a specifiche condotte del dipendente che non potevano essere considerate come tasselli di un disegno persecutorio dell’azienda. Ancora, a dire del Giudice di Reggio Emilia, il ricorrente non aveva provato né che l’azienda prima gli avesse promesso una promozione e, poi, gli avesse preferito un altro candidato, a dire del lavoratore, meno qualificato di lui; né che il candidato che aveva ottenuto la promozione, divenendo, così, suo superiore gerarchico, fosse in contrasto con il ricorrente perché quest’ultimo era a conoscenza di presunti fallimenti lavorativi del suo superiore; né che il superiore gerarchico del lavoratore avrebbe tenuto un atteggiamento intimidatorio nei suoi confronti, cercando di allontanarlo dall’azienda. Il Tribunale, poi, ha ritenuto insussistenti anche altri comportamenti, posti in essere, a dire del ricorrente, a distanza di 10 anni dai primi, ossia: I) l’asserito mancato mantenimento della promessa del passaggio ad altra posizione lavorativa; II) il mancato riconoscimento di un aumento retributivo asseritamente promesso; III) l’asserita comunicazione che egli rientrava tra dipendenti in esubero presso la Società- la quale aveva aperto una procedura di licenziamento collettivo – e che se non avesse accettato l’accordo transattivo propostogli sarebbe stato estromesso dall’azienda senza alcun incentivo economico; IV) la riduzione, asseritamente immotivata, delle sue aree di competenza; V) il cambio di valutazione da over performer a low performer, che aveva avuto quale conseguenza la partecipazione a corsi di recupero; VI) la riduzione, per un solo anno, dell’incentivo corrispostogli; VII) l’assegnazione ad altra posizione lavorativa. Invero, il Giudice di Reggio Emilia, ha evidenziato che: – non vi erano elementi probatori atti a dimostrare che il ricorrente dovesse essere assegnato ad altra posizione lavorativa; – l’aumento retributivo era stato, comunque, concesso al lavoratore, seppur in misura minore di quella inizialmente prospettata, e che erano stati chiariti i criteri che avevano portato a riconoscere l’aumento retributivo in misura ridotta, non integrando detta circostanza un atto vessatorio; – non vi era stato nessun atto vessatorio rivolto nei confronti del ricorrente, ma che egli, come molti altri lavoratori, era stato destinatario di una proposta transattiva di uscita incentiva su base volontaria, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo; – i lavoratori ogni anno ricevono una valutazione sulla base di precise regole procedurali, e che il ricorrente aveva ricevuto una valutazione negativa perché non aveva raggiunto gli obiettivi di performance prefissati; – gli incentivi corrisposti al lavoratore erano stati ridotti sulla base di criteri applicati anche ad altri dipendenti, in forza di quanto previsto dal piano incentivi, e che per un anno l’incentivo era stato ridotto a causa delle numerose assenze del lavoratore. Il Tribunale ha, da ultimo, chiarito che il ricorrente non aveva provato di aver subito demansionamento o dequalificazione, in quanto, aveva sempre svolto la medesima attività. Piu precisamente, il Giudice di Reggio Emilia ha precisato che era emerso chiaramente il fatto che il lavoratore preferisse occuparsi della promozione di alcuni prodotti e settori piuttosto che di altri, ma che le modifiche decise dal datore di lavoro in merito alla riduzione delle aree di competenza del lavoratore o della sua assegnazione ad altra posizione lavorativa non potevano essere inquadrate nell’ambito di un demansionamento.
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25/03/2024


Cosa accade se a fronte dell’invito alla ripresa del servizio, non giunge alcuna comunicazione dal lavoratore che si è visto accogliere in giudizio la domanda di reintegrazione? Rispondendo a tale quesito, la Corte di Cassazione, con ordinanza del 5 febbraio 2024 n. 3264, da una parte, ha ribadito il principio per il quale il termine di trenta di cui dal quinto comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori consente al lavoratore di ponderare adeguatamente l’adesione all’invito alla ripresa del servizio ovvero la richiesta del pagamento dell’indennità sostitutiva alla reintegrazione (pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto). Dall’altra parte, la Corte ha precisato che l’opzione del lavoratore soggiace al termine decadenziale di 30 giorni dalla ricezione della lettera datoriale di ripresa del servizio. Decorso tale termine, il rapporto di lavoro è da considerarsi definitivamente risolto. Questi i fatti. In esecuzione del provvedimento giudiziale di nullità del licenziamento, il datore di lavoro ha comunicato al lavoratore l’immediata ripresa del servizio con contestuale avviso che in caso di mancata presentazione, senza giustificato motivo, il rapporto di lavoro si sarebbe automaticamente risolto. Decorsi inutilmente trenta giorni successivi dalla ricezione della predetta missiva aziendale, l’(ormai) ex dipendente ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo rivendicando il diritto al pagamento delle retribuzioni calcolate dalla data di pubblicazione della sentenza di reintegra sino all’esercizio dell’azione giudiziaria. A fronte dell’opposizione al decreto ingiuntivo da parte dell’azienda, il Tribunale ha accolto le richieste economiche del lavoratore limitatamente però a quanto maturato nel periodo tra la data della sentenza di reintegra e lo scadere dei trenta giorni dalla ricezione della lettera aziendale. Investita della questione, la Corte di Appello, richiamati i fatti, i conteggi e i pagamenti in corso, ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha interposto un unico motivo di ricorso per Cassazione sostenendo la nullità della missiva dell’azienda in quanto recante un termine inferiore ai trenta giorni di cui all’art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori. Il ricorso del lavoratore è stato rigettato dalla Suprema Corte, la quale ha chiarito come l’indicazione da parte del datore nella lettera di una data di ripresa del servizio anteriore allo scadere dei trenta giorni normativamente previsti non pregiudichi né la validità né l’efficacia di tale comunicazione. Ciò in applicazione del principio di conservazione del contratto di cui all’art. 1367 cod. civ., criterio interpretativo oggettivo dei negozi giuridici che, a tutela della certezza del diritto e dei traffici giuridici, scoraggia il permanere di situazioni di incertezza nell’ordinamento, attribuendo ad un atto giuridico il significato che gli consenta di esplicare effetti. Oltre a chiarire la validità ed efficacia della lettera di ripresa del servizio, con la predetta motivazione la Corte di Cassazione ha dimostrato come intorno ai canoni interpretativi in materia contrattuale continui ad evolversi il c.d. “diritto del lavoro vivente”. L’applicazione di tali criteri risulta (ancora) imprescindibile nell’inquadramento di fattispecie complesse, ad oltre ottanta anni dall’opera codificatoria dell’eminente e indimenticato civilista Cesare Grassetti.
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21/03/2024


Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha affermato [dando continuità alla posizione espressa già nel 2021] il principio secondo cui, qualora la parte che subisce il recesso [nel caso di specie il datore di lavoro] rinunci al periodo di preavviso, interrompendo immediatamente il rapporto di lavoro, essa non è tenuta a riconoscere la relativa indennità sostitutiva alla parte recedente [lavoratore dimissionario]. La Corte ricorda innanzitutto che l'istituto del preavviso adempie alla funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso - che è atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo - le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto. Il tema della rinunciabilità del periodo di preavviso da parte del soggetto non recedente e delle conseguenze giuridiche di tale rinuncia è strettamente connesso e condizionato dalla soluzione che si intende dare alla questione circa l'efficacia reale o obbligatoria del preavviso. A tale riguardo, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta da diversi anni al superamento della tesi della natura reale del preavviso, ritenendo che, alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 c.c., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso abbia efficacia obbligatoria. Da ciò discende che la parte non recedente, che abbia rinunciato al preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunciabilità del preavviso esclude che ad essa possano connettersi a carico della parte rinunciante effetti obbligatori in contrasto con le fonti delle obbligazioni indicate nell’art. 1173 c.c. Questo nuovo orientamento farà sicuramente discutere in quanto si pone in contrasto con quello secondo cui la parte che recede nel rispetto del preavviso, avrebbe diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del suddetto o in alternativa, qualora la parte non recedente rinunci al preavviso lavorato, alla relativa indennità sostitutiva.
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18/03/2024


Con la recente sentenza la Suprema Corte ha confermato la pronuncia dei giudici di merito di legittimità del licenziamento di un cuoco di una Casa di Cura che sistematicamente e reiteratamente si appropriava di beni alimentari, pur se deperibili e di modico valore. Si legge, in particolare, in sentenza: "con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. va condiviso l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la condotta contestata perché effettivamente essa, quale fatto costituente reato e già oggetto di episodi emulativi da parte di altri soggetti, sebbene riguardante cibi cotti e deperibili, non destinati ad esigenze personali del lavoratore o ad altri scopi umanitari, manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto, sebbene vi possa essere stata una apparente tolleranza da parte del datore di lavoro ma senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ciò che viene messo in discussione è il dovere del lavoratore di non porre in essere comportamenti che possano incidere sulla fiducia che l'azienda ha riposto nel dipendente stesso. 12. Deve, per concludersi, anche dare risalto al fatto che, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto".
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18/03/2024


La Cassazione, con ordinanza n. 6468 del 12 marzo 2024, consolida l’indirizzo per cui l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex lege n. 104/92, per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, costituisce giusta causa di licenziamento in quanto viola le finalità per cui il beneficio è concesso. Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso ex L.104/92, deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla tematica dei licenziamenti disciplinari intimati a causa dell’utilizzo di permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle della cura del disabile. La fattispecie è quella dell’abuso del diritto con riferimento all’uso improprio delle prestazioni assistenziali da parte dei lavoratori. Sul punto esiste un orientamento di particolare rigore che fa proprio leva sul “disvalore sociale” della condotta che contrasta col “minimo etico” preteso dal lavoratore funzionalmente collegato, non solo agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, ma anche con quelli che sono connaturati all’appartenenza ad una comunità. In tal senso, tra le prime ad occuparsi della questione, si segnala Cass. 4.3.2014 n. 4984, che ha trattato il noto caso di utilizzo deii permessi ex lege n. 104/1992 per partire in vacanza con degli amici per un lungo fine settimana; seguita da Cass. 30.4. 2015, n. 8784, ove il prestatore ha abusato del diritto utilizzando il permesso per partecipare ad una “serata danzante”. Si indicano sul punto anche: Cass. 06 maggio 2016, n. 9217, nonché, in senso conforme, Cass. 22.03.16, n. 5574, Cass. 13.9.2016, n. 17968. Tuttavia, occorre segnalare che secondo Cass. 17968/16, vi è abuso del diritto “ove il nesso causale manchi del tutto” tra assistenza del disabile e assenza dal lavoro, ciò giustificando il recesso per lesione della buona fede del diritto. Ciò perché volendo aderire alla tesi che l’assistenza deve essere continua ed esclusiva, di certo non si può pretendere che essa si espleti ininterrottamente per l’intera giornata (cfr. Cass. 31.01.2017, n. 2600). Orientamento questo confermato, successivamente, da Cass. 19.06.2020, n. 12032, Cass. 12.08.2020, n. 16930 e Cass. Ord. 25.09.2020, n. 20243.
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15/03/2024


È questo il principio di diritto recentemente espresso da una pronuncia della Cassazione (ordinanza n. 27331 del 26 settembre 2023). La questione trae origine dal caso di un lavoratore che aveva proposto un’azione volta a contestare le proprie dimissioni volontarie e ad accertare, invece, l’esistenza di un provvedimento espulsivo da parte del datore di lavoro. In primo grado e poi in appello il lavoratore vedeva respinte le proprie pretese sul presupposto per cui in materia di onere della prova (ex art. 2697 c.c.), laddove, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro senza forma scritta, si controverta sulla riconducibilità della cessazione del rapporto al lavoratore piuttosto che al datore di lavoro, è il lavoratore che agisce a dover fornire la prova dell’esistenza di un provvedimento espulsivo. Una siffatta prova non era stata fornita dal ricorrente e, pertanto, doveva ritenersi accertata l’esistenza delle dimissioni volontarie. Il lavoratore promuoveva ricorso per Cassazione sostenendo che la Corte d’Appello aveva erroneamente trascurato come la fattispecie si fosse verificata nel 2018 e dunque nel periodo di vigenza dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015. Tale norma prevede che “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali … e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”. Le dimissioni del lavoratore, in assenza della procedura telematica, erano dunque inefficaci. Del medesimo avviso anche la Suprema Corte che ha cassato con rinvio la pronuncia della Corte territoriale rilevando come i giudici del merito avessero applicato principi giurisprudenziali validi in ipotesi diverse e non sovrapponibili a quella di specie proprio perché sottratte, ratione temporis, all’applicazione dell’art. 26. La normativa del 2015, prosegue la Corte non è intervenuta ad alterare la natura dell’atto di dimissioni come negozio unilaterale recettizio “ma richiede – ai fini dell’efficacia dell’atto – il rispetto di determinate forme (di natura telematica), salvo che le dimissioni (e la risoluzione consensuale) intervengano in sede assistita o avanti alla Commissione di certificazione”. L’obiettivo della modifica legislativa risiede, da un lato, nell’esigenza di arginare il fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco conferendo all’atto di recesso una data certa; dall’altro, di garantire che la volontà del dipendente di risolvere il contratto di lavoro si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente. La Cassazione ha quindi ribadito la piena operatività ed efficacia delle dimissioni solo se esperite attraverso la procedura telematica senza ammettere eccezioni a tale regola. Ci si domanda però se una diversa valutazione non possa invece essere ammessa in tutti quei casi in cui il lavoratore – pur non osservando la procedura telematica – tenga una condotta palesemente idonea a manifestare la volontà di non proseguire il rapporto assentandosi dal lavoro per diverso tempo senza dare alcuna notizia di sé. In un caso siffatto il datore di lavoro si trova nella difficile condizione di dover scegliere se licenziare il lavoratore per assenza ingiustificata – sopportando i costi oltre che il rischio di un’impugnazione del recesso – o attendere sine die che il lavoratore decida di dimettersi. Invero, nel 2022 il caso è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito del Tribunale di Udine che, con una pronuncia rimasta isolata (sentenza n. 20 del 27 maggio 2022), ha inteso qualificare come risoluzione per fatti concludenti la reiterata ed intenzionale assenza di un dipendente finalizzata al solo scopo di essere licenziato. Oggi la questione è al vaglio del legislatore: il Governo ha infatti presentato alle Camere un Disegno di Legge che interviene a modificare proprio l’art. 26 del D.lgs. 151/2015. La proposta prevede che in caso di assenza ingiustificata di un lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre cinque giorni, il rapporto debba intendersi risolto per volontà del lavoratore senza che trovi applicazione la procedura telematica. Tale novità, ad avviso di chi scrive, deve essere accolta con favore perché interverrebbe ad arginare l’ormai sempre più diffuso fenomeno delle assenze preordinate al fine di ottenere il licenziamento ed accedere al trattamento di disoccupazione. Allo stato, non resta dunque che attendere l’evoluzione e la conclusione dell’iter legislativo.
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26/02/2024


Il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con l’unica eccezione per la giusta causa, deve essere preceduto dall’avviso a cui il datore è tenuto nel rispetto del termine fissato dalla legge, dai ccnl o, in subordine, dagli usi e secondo equità. Il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di cercare da subito un nuovo impiego per sopperire alla perdita imminente del posto di lavoro e il preavviso è dovuto anche in caso di dimissioni. La funzione del preavviso è di attenuare le conseguenze del recesso per chi lo subisce. La stessa funzione è da attribuirsi all'indennità sostitutiva da corrispondere nell'ipotesi di violazione del preavviso e che non va risarcire un danno in senso giuridico, ma un danno in senso economico. Il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso è compatibile con il risarcimento dei danni da assenza di giusta causa o giustificato motivo di recesso: sono due diritti sorretti da diverse funzioni e che possono essere fatti valere contemporaneamente.
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19/02/2024


la Cassazione ha recentemente affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore che, rifiutando il trasferimento disposto dalla società, si ripresenta in servizio nella sede di originaria adibizione. l dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per non aver ottemperato all'ordine di trasferimento ad altra sede lavorativa e per aver, successivamente, manomesso i registri elettronici degli orari di ingresso ed uscita. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo le predette condotte tanto da gravi da essere lesive del vincolo fiduciario. La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che risulta lesivo del vincolo fiduciario un comportamento come quello tenuto dal dipendente che aveva rifiutato di dar seguito all’ordine di servizio di trasferimento. Per la sentenza, infatti, la validità del provvedimento aziendale non risulta inficiata dalla circostanza che sia stato notificato al lavoratore mentre lo stesso era in malattia. Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, la condotta del dipendente risulta aggravata dal fatto che lo stesso al termine della malattia, non solo aveva deliberatamente ripreso servizio presso la sede di originaria adibizione, ma aveva anche dolosamente falsato il registro contenente gli orari di ingresso al lavoro. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal dipendente e conferma la legittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.
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12/02/2024


Secondo la Corte di giustizia UE il lavoratore che non abbia potuto fruire di tutti i giorni di ferie prima della cessazione del rapporto di lavoro ha diritto alla monetizzazione delle stesse (indennità sostitutiva delle ferie). Con una recente sentenza del 18 gennaio 2024, nella causa C-218/22, scaturita da un rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale Lavoro di Lecce in relazione ad una controversia tra il Comune di Copertino e un dipendente dimissionario con un residuo di 79 giorni di ferie non godute e non monetizzate dal datore di lavoro, la Corte ricorda che solo nel caso in cui il lavoratore si sia astenuto dal fruire dei suoi giorni di ferie deliberatamente, sebbene il datore di lavoro lo abbia invitato a farlo, informandolo del rischio di perdere tali giorni alla fine di un periodo di riferimento o di riporto autorizzato, il diritto dell’Unione non osta alla perdita di tale diritto. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire dei giorni di ferie annuali retribuite ai quali aveva diritto, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti costituiscano una violazione del diritto comunitario (rispettivamente, dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88, nonché dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia europea è sostanzialmente in linea con gli approdi più recenti della giurisprudenza nazionale. Cassazione civile sez. lav. 27/11/2023, n. 32807, aveva infatti già affermato che le dimissioni volontarie del lavoratore non possono configurare un’ipotesi automatica di rinuncia all’indennità sostitutiva per ferie non godute, precisando al riguardo che la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: I) di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario formalmente; II) di averlo nel contempo avvisato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire III) del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, sicché, dovendosi intendere il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti economici sostitutivi come essenzialmente volto a contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole, nessun valore di rinuncia all’indennità sostitutiva delle ferie può, in definitiva, essere automaticamente attribuito alle dimissioni del lavoratore, atto volontario posto dalla disciplina sullo stesso piano delle altre vicende risolutorie del rapporto di lavoro. Conclusioni: alla luce di tutto quanto sopra, è fondamentale per il datore di lavoro ricordare ai propri dipendenti l’importanza del godimento delle ferie annuali retribuite ed incentivare una razionale pianificazione delle stesse; diversamente, qualora il datore di lavoro non dimostri quanto sopra, il lavoratore deve essere risarcito.
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06/02/2024


La modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e a incidere sull’elemento essenziale della fiducia.
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18/01/2024


Il dipendente di una Banca che agevola operazioni di credito tra clienti dell’Istituto, a cui quest’ultimo è del tutto estraneo, tiene una condotta che costituisce giusta causa di recesso e, pertanto, può essere legittimamente licenziato. Tale principio è stato enunciato con la recentissima sentenza n. 109 del 3 gennaio 2024 dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha integralmente confermato la pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva, invece, riformato la decisione di primo grado. Nel caso in esame, nel corso delle indagini preliminari che avevano condotto all’apertura di un procedimento penale nei confronti della direttrice della filiale di una Banca, era emerso che la stessa aveva posto in essere plurimi e ripetuti comportamenti finalizzati ad agevolare l’attività e gli affari privati di un facoltoso cliente dell’Istituto, il quale accordava finanziamenti onerosi ad altri clienti di quest’ultimo. In particolare, dall’inequivocabile contenuto delle intercettazioni telefoniche disposte in sede penale risultava con chiarezza che la direttrice non si era limitata a mettere in contatto tra loro i suddetti soggetti a tal fine (condotta, già di per sé, senz’altro censurabile, considerato che – com’è noto – l’erogazione di prestiti rappresenta un’attività precipua svolta dalle Banche), ma aveva anche assunto un ruolo centrale nella vicenda. Infatti, la stessa – anche durante l’orario di lavoro e all’interno dei locali dell’Istituto – era solita tenere i rapporti con entrambe le parti, partecipare attivamente alle trattative tra di esse (nell’ambito delle quali era individuata come unica figura di riferimento), fornire loro consigli ed indicazioni, nonché gestire le reciproche conflittualità, adoperandosi al fine di assicurare il buon esito delle operazioni di concessione del credito. Nella fattispecie de qua, la Corte di Cassazione ha evidenziato, innanzitutto, la piena utilizzabilità, ai fini della contestazione disciplinare, dell’intera documentazione inerente alle intercettazioni estratte dal fascicolo penale dell’indagine a carico della direttrice della Banca. Ciò in quanto dette intercettazioni erano state legittimamente disposte, nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, tenuto anche conto dell’inapplicabilità in ambito civile e giuslavoristico dei limiti al loro utilizzo previsti dall’art. 270 cod. proc. pen. esclusivamente con riferimento al processo penale. In proposito, il Supremo Collegio ha osservato che era del tutto irrilevante la circostanza che la prova dell’effettiva sussistenza della condotta addebitata alla lavoratrice fosse contenuta in verbali di intercettazione che, non essendo stati trascritti all’interno di una perizia, si presentavano nella forma del c.d. “brogliaccio”. Sul punto, è stato evidenziato che – nell’accertamento dell’esistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. – il Giudice del Lavoro può fondare il proprio convincimento sulla base del materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari anche se quest’ultimo non è stato sottoposto al vaglio del dibattimento processuale, poiché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, la veridicità di detti elementi. Inoltre, la Corte di Cassazione ha rilevato che la mancata trascrizione delle intercettazioni telefoniche non valeva, in ogni caso, ad escludere la loro efficacia probatoria, in quanto quest’ultima era costituita dalle bobine e dai verbali, mentre la trascrizione si sostanziava in un’operazione meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico. Sulla scorta del suddetto materiale probatorio – la cui valutazione di merito effettuata dalla Corte d’Appello di Bologna è stata ritenuta dal Supremo Collegio scevra di vizi logico-giuridici e, quindi, insindacabile – il licenziamento della dipendente è stato considerato legittimo. Al riguardo, è stato evidenziato che la condotta della direttrice che, nello svolgimento delle sue mansioni, si era “spesa” al fine di consentire il buon esito delle operazioni di concessione del credito erogato non dall’Istituto che la stessa rappresentava, bensì di un cliente di quest’ultimo in favore di altri clienti, appariva idonea – sotto il profilo giuslavoristico – a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in ragione del ruolo di elevata responsabilità da lei ricoperto, che le avrebbe imposto di agire sempre esclusivamente nell’interesse della Banca sua datrice di lavoro. Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato che a nulla rilevava in senso contrario il fatto che la dipendente fosse stata poi assolta dall’ipotesi di reato a lei ascritta, in ragione della ben nota autonomia tra processo penale e civile, in forza della quale il Giudice civile (e, quindi, anche quello del Lavoro) ha il diritto di riesaminare in modo indipendente il materiale probatorio raccolto in sede penale senza essere vincolato dalla valutazione del medesimo ivi effettuata.
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28/12/2023


Il requisito del periculum in mora richiede la prova di un fondato timore di perdere le garanzie del proprio credito. Requisito desumibile, alternativamente, sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, egli possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio. Il periculum in mora può essere riconosciuto esistente innanzitutto quando sussista una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore stesso in rapporto all’entità del credito".
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28/12/2023


Con la recente sentenza n. 35922/23, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento di un sindacalista che, a più riprese, sulla propria pagina Facebook, aveva pubblicato post diffamatori e offensivi nei confronti della società datrice di lavoro e delle persone fisiche proprietarie e amministratrici, ritenendo ampiamente superati i limiti di tutela del diritto di critica.
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28/12/2023


In tema di variazione dell’orario di lavoro [da tempo pieno a tempo parziale e viceversa], l’art. 6, comma 8 del D.lgs. n. 81/2015 prevede che "il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento". Pur rientrando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nell'oggetto del suddetto divieto, ciò non significa che il lavoratore con orario a tempo parziale non possa essere licenziato per la suddetta causale. In tale prospettiva deve essere anzitutto chiarito che le esigenze organizzative che sottostanno alla richiesta di variazione dell'orario da parte del datore di lavoro non possono rilevare, di per sé, come ragione oggettiva - esclusiva ed autosufficiente - di licenziamento. D'altra parte, nemmeno può essere precluso al datore di lavoro l'esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di variazione dell’orario di lavoro entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966, possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In questo caso, tuttavia, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare la sussistenza delle esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può essere più mantenuta, nonché' il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento. Il datore di lavoro deve altresì dimostrare che non esistano ulteriori soluzioni occupazionali [o altre alternative orarie] rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento.
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28/12/2023


Il tempo che il lavoratore impiega per indossare la divisa aziendale deve essere considerato orario di lavoro se soggiace al potere di conformazione del datore di lavoro che lo regolamenta e dirige. I giudici rimarcano che l’eterodirezione sussiste non solo quando è presente una esplicita disciplina d’impresa in merito, ma anche quando questa risulta implicitamente dalla natura degli indumenti. Aggiungono quindi che l’eterodirezione si evince inoltre dalla funzione specifica degli indumenti stessi e comunque sussiste se differiscono da quello che viene definito “criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.
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07/12/2023


Ai fini del controllo del giustificato motivo oggettivo di #licenziamento, in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di #riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l'effettività della #scelta effettuata a valle con la soppressione di un unico posto di #lavoro, diventa necessario approfondire (ed è onere del #datore di lavoro indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato #lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se vi sono ruoli comparabili. ↔ Le ragioni della decisione: Nel caso di specie la Corte di #merito - ad avviso della #Cassazione - ha violato le regole in materia di accertamento del necessario collegamento causale tra la ragione #oggettiva addotta e la soppressione del posto di #lavoro, e dell'effettività della ragione economica "comunque addotta" dal datore di lavoro a fondamento del #licenziamento per motivi economici. Posto che – prosegue la Suprema Corte - se è stata ipotizzata una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi, diviene necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro di indicare) le ragioni per le quali la scelta cade su quel determinato lavoratore, dovendosi prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se si trattava di ruoli comparabili in quanto parimenti non previsti in #organico. Ciò del resto appare logico e coerente ai fini del controllo sul #GMO in cui la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità, onde accertare l'effettività della scelta effettuata a valle con la #soppressione del unico posto di lavoro (peraltro già soppresso precedentemente, nel caso di specie); senza che questo trasmodi in indebita interferenza con la #discrezionalità delle scelte datoriali.
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07/12/2023


Niente licenziamento per il dipendente che con l’auto aziendale si rechi a cambiare indumenti e che nel frattempo si fermi al mercato a fare la spesa.
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10/10/2023


Con l’ordinanza suddetta, la Cassazione afferma che vanno retribuiti i tempi impiegati dagli infermieri per la vestizione e la svestizione della divisa e per il passaggio di consegne, essendo riferibili ad una diligente effettiva prestazione di lavoro. Il fatto affrontato Gli infermieri ricorrono giudizialmente al fine di ottenere la retribuzione per le operazioni di vestizione e svestizione e di passaggio di consegne, aventi una durata stimabile in circa 20 minuti per ogni giornata lavorativa. La Corte di Appello accoglie la predetta domanda, riconoscendo però una durata inferiore delle predette attività pari a 10 minuti giornalieri. L’ordinanza La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che va computato nell'orario di lavoro, con conseguente diritto alla retribuzione aggiuntiva, il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa nel luogo di lavoro, nell’ipotesi in cui tale operazione sia importa dal datore per motivi igienici. Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, va considerato meritevole di ricompensa economica anche il tempo impiegato per il cambio di consegne nel passaggio di turno, in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all'esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest'ultimo la continuità terapeutica. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società datrice, confermando il diritto degli infermieri a vedersi riconosciute le differenze retributive richieste.
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09/10/2023


Il controllo sulle e-mail del lavoratore da parte del datore di lavoro è illegittimo anche se attuato “a scopo difensivo” – ovvero per provare una condotta illecita del dipendente –quando il datore di lavoro non dimostri che il controllo è stato posto in essere in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito da parte del dipendente. Statuendo tale principio la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un dirigente fondato su prove raccolte tramite un controllo a distanza costituito dal monitoraggio della cartella di posta elettronica del lavoratore. In particolare, il datore di lavoro aveva appreso – attraverso la lettura di alcune e-mail inviate dal dirigente – che questi aveva, in violazione del dovere di fedeltà e diligenza, intrattenuto rapporti con la concorrenza. Alla contestazione di tali condotte era conseguito il recesso in tronco che era stato prontamente impugnato in giudizio dal lavoratore. La Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto il recesso illegittimo poiché il datore di lavoro aveva raccolto le prove, poste a base degli addebiti, tramite un controllo sulla posta elettronica del dipendete senza però dimostrare l’esistenza – “ex ante” – di validi motivi che avevano determinato la necessità di tale indagine. La Cassazione, innanzi alla quale il datore di lavoro aveva impugnato la suddetta decisione, ha confermato l’illegittimità del controllo effettuato dalla società datrice (e quindi, a cascata, l’illegittimità del licenziamento) esprimendo i seguenti interessanti principi: 1) i controlli a distanza posti in essere dal datore di lavoro e diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, non sono soggetti ai limiti ed alle prescrizioni previste dall’art. 4 Stat. Lavoratori; 2) fermo restando ciò, per essere lecito, tale controllo deve essere “attuato ex post”, ossia “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto”, perché solo a partire “da quel momento” il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili. Infatti, solo la sussistenza di tale “fondato sospetto” dimostra che il controllo a distanza non era diretto ad un generale monitoraggio dell’attività lavorativa del dipendente, quanto piuttosto “mirato” ad accertare prefigurate condotte illecite commesse dal lavoratore; 3) nel caso in cui i controlli a distanza siano posti in essere in assenza del fondato sospetto che il dipendente abbia commesso un illecito, gli stessi non saranno utilizzabili anche ai sensi della normativa sulla privacy. In sostanza, perché i controlli a distanza c.d. difensivi siano legittimamente posti in essere, è obbligatorio che sussista una sorta di un incipit che giustifichi il ricorso a tali controlli pena invalidità della successiva sanzione disciplinare adottata. Tale incipit è identificato in una serie di indizi (la cui sussistenza deve essere provata dal datore) che fanno presumere che il dipendente abbia già commesso degli illeciti prima che il datore di lavoro svolga i controlli a distanza. Nel caso di specie, come detto, la datrice di lavoro non aveva provato che il dirigente, antecedentemente ai controlli sulla sua posta elettronica, aveva posto in essere comportamenti tali da far sorgere il sospetto che un illecito fosse in atto. Di conseguenza, il licenziamento è stato ritenuto invalido in quanto basato su indagini che non potevano utilizzate ciò indipendentemente dal fatto che, all’esito di tali controlli, fosse effettivamente emerso che il dipendente aveva commesso condotte disciplinarmente rilevanti.
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03/10/2023


La Corte d’Appello di Catanzaro confermava una pronuncia di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo del Tribunale di Vibo Valentia, emesso per retribuzioni e TFR non percepiti da un lavoratore. Motivava detto rigetto affermando che l’accordo conciliativo, stipulato tra le parti davanti al Prefetto di Vibo Valentia, alla presenza di un rappresentante sindacale (accordo che, nella logica transattiva, prevedeva, fra gli altri, modalità e tempistiche di pagamento solo di parte di detti compensi), non era idoneo a rendere le rinunce non impugnabili ai sensi dell’art. 2113 cc. Secondo la Corte territoriale, in particolare, la Prefettura di Vibo Valentia non costituiva una delle sedi sindacali ex art. 2113 cc e l’accordo in questione non rispettava le modalità di stipulazione di cui all’art 412-ter cpc. Contro tale decisione proponeva ricorso per cassazione la società datrice di lavoro, censurando, per quanto qui rileva, la sentenza laddove aveva ritenuto impugnabile l’accordo conciliativo in questione, fondandosi principalmente sulla sede e non – come avrebbe dovuto – sulla effettiva assistenza del sindacalista di fiducia del lavoratore. Gli Ermellini hanno, però, rigettato l’impugnativa, evidenziando, innanzitutto, che in tema di rinunce e transazioni nell’ambito di un rapporto di lavoro, per la inoppugnabilità delle rinunce, ai sensi dell’art. 2113 cc, della conciliazione intervenuta ex artt. 185, 410 , 411, 412 ter e 412 quater cpc è decisiva la effettività dell’assistenza sindacale, finalizzata a porre il lavoratore in condizione di conoscere pienamente l’oggetto delle proprie rinunce. In secondo luogo, i Giudici di legittimità hanno affermato che la Corte di merito non aveva escluso in astratto la validità di accordi come quello sottoscritto tra le parti davanti al Prefetto, alla presenza di un rappresentante sindacale, limitandosi soltanto a ritenere la fattispecie non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 412-ter c.p.c., non trattandosi, in ogni caso, di conciliazione giudiziale o davanti alle Commissioni di conciliazione o in sede arbitrale. Tale non riconducibilità – hanno proseguito i Giudici di legittimità – derivava, però, in concreto, proprio dalla valutazione del difetto di effettiva assistenza sindacale (che emergeva dagli atti di causa), desumibile anche dalla sede non prettamente sindacale in cui era stato raggiunto l’accordo e dalla mancata previsione di modalità contrattuali collettive cui parametrare tale valutazione.
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18/09/2023


...il danno alla persona che si sarebbe aggravato non poteva definirsi imprevedibile per mancanza della relativa prova, dato che l'appellante non aveva fornito nel corso del giudizio di primo grado alcuna prova circa il preteso imprevedibile aggravamento delle proprie condizioni di salute post transazione; ne' la consulenza di parte prodotta dal ricorrente in primo grado era idonea a provare l'asserita imprevedibilita' del prodotto aggravamento; e tanto non emergeva neanche dalla documentazione allegata dall'appellante alla nota tecnica di aggravamento..
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15/09/2023


Il Tribunale di Bari, est. Vicenzo Maria Tedesco, con articolata sentenza ha messo in dubbio l'orientamento espresso dalla Suprema Corte in merito alla decorrenza della prescrizione in corso di rapporto post Legge Fornero, ritenendo che la riformulazione dell'art. 18 contenuta nella suddetta legge, garantisca, comunque, una adeguata stabilità al rapporto di lavoro, mantenendo il diritto alla reintegra in ipotesi di licenziamento ritorsivo e, dunque, motivato dall'esercizio, da parte del lavoratore, del diritto alle differenze retributive.
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01/09/2023


Per i dipendenti Trenitalia sì al risarcimento per il lavaggio non al tempo tuta potendosi presentare già in divisa
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29/08/2023


✅ La richiesta da parte del datore di lavoro di turni di reperibilità in misura di gran lunga superiore al massimo previsto dal CCNL comporta un'intollerabile sproporzione quantitativa della prestazione di lavoro e, conseguentemente, la violazione dei canoni di correttezza e buona fede. ✅ Il danno è in re ipsa (cd danno-evento), configurandosi la violazione del diritto al riposo e dunque della personalità morale del lavoratore protetta dall'art. 2087 c.c. ✅ Non vi è pertanto necessità che il lavoratore provi alcunché in ordine ai pregiudizi patiti, poiché l'obiettiva misura dell'impegno lavorativo accertata in concreto determina "la negazione in sé di un tratto della vita personale e dunque un danno alla personalità morale del lavoratore, per essersi perduto il riposo ed essersi in tal modo realizzata una interferenza illecita nella sfera giuridica inviolabile altrui" ✅ In definitiva, l'abnormità della prestazione lavorativa configura ipso iure una lesione dei beni personalissimi del lavoratore meritevole di risarcimento in termini di danno da usura psico-fisica, essendo "fuorviante pretendere necessariamente l'esistenza di perdite-conseguenze diverse".
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08/08/2023


la S. C. ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente che aveva molestato verbalmente una giovane collega in due diverse occasioni, attraversi chiare allusioni a sfondo sessuale che avevano minato la libertà della ragazza. In particolare, i Giudici di merito avevano ritenuto infondate le giustificazioni fornite dall’uomo secondo cui le frasi incriminate non avevano alcuna volontà offensiva e si inserivano all’interno di un clima goliardico che si era instaurato tra i due giovani, posto che il comportamento addebitato al ricorrente era comunque non desiderato dalla collega ed era altresì oggettivamente idoneo a ledere e violare la dignità della donna, costituendo giusta causa di licenziamento, ponendosi correttamente nella prospettiva della vittima e non in quella del molestatore. Avverso tale pronuncia, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, sottolineando, da un lato, l’assenza, nelle sue parole, della volontà di offendere la collega, e, dall’altro, l’inattendibilità di quest’ultima, alla luce anche del provvedimento di archiviazione disposto dal GIP in riferimento alla denuncia sporta dalla ragazza in ordine al reato di stalking. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo condivisibili le premesse giuridiche dalle quali è partita la Corte territoriale che si è mossa nella cornice della definizione di molestie come prevista dall’art. 26 del d.lgs. n.198/2006, considerando molestie quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Applicando tale definizione al caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che la condotta posta in essere dall’uomo verso la nuova collega fosse oggettivamente indesiderata (anche se a tale comportamento non erano seguite effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale), e integrasse quel concetto di molestia, definito dalla norma richiamata, che si fonda sulla oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto, «con assenza di rilievo della effettiva volontà di recare una offesa».
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04/08/2023


La S.C. con recentissima decisione, è ritornata sulle conseguenze in termini di responsabilità civile per il notaio in caso di violazione dei peculiari doveri connessi alla sua prestazione professionale. Infatti, con la decisione n.23600 del 2.8.2023, la 2^ sez. della Cassazione, ha ritenuto il notaio responsabile in quanto ha omesso di chiarire agli acquirenti tutte le conseguenze, anche potenzialmente negative, cui gli stessi sarebbero potuti andare incontro per effetto dell’accollo del mutuo, dato che questi ultimi, appunto in quanto privi di cognizioni tecniche specifiche, erroneamente ritenevano che, con la vendita e l’accollo del mutuo da parte dell’acquirente, si sarebbero liberati del mutuo, e pertanto avevano rinunciato all’ipoteca legale, ma tale loro aspettativa è rimasta frustrata in quanto la parte acquirente, dopo aver pagato la prima rata del mutuo, rivendeva l’immobile ad un terzo, parimenti resosi inadempiente. Per i giudici di legittimità, infatti, il notaio avrebbe dovuto chiarire ai venditori la differenza tra un accollo meramente interno, ed un accollo esterno liberatorio, non potendosi certo tale distinzione, foriera di importanti effetti giuridici per le parti, ricavare dal mero capitolato del mutuo; il rilievo di tale informazione, e la conseguente incidenza sulla violazione del dovere di consiglio e la discendente responsabilità civile del notaio, è stato dalla Corte evidenziato affermando che il corretto assolvimento del dovere di consiglio risulta funzionale al corretto assolvimento del compito istituzionale del notaio, quello di assicurare che l’atto rogato sia idoneo a svolgere la sua funzione tipica ed a permettere agli stipulanti di conseguire il risultato voluto. La pronuncia in questione appare indubbiamente corretta e condivisibile, ove si tenga presente, da un lato, che l'obbligo di informazione e consiglio costituisce un contenuto essenziale della prestazione professionale demandata dall’ordinamento al notaio e, dall’altro, quale conseguenza di tale premessa, che la violazione del relativo obbligo assurge fonte di responsabilità traducendosi nella violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., che vengono in rilievo quali criteri determinativi e integrativi della prestazione contrattuale, conseguentemente imponendo al notaio il compimento di tutto quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi delle parti contraenti.
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02/08/2023


Nel condominio le realizzazioni tecniche devono rispettare il decoro dell’edificio. Lo conferma la Cassazione nell’ordinanza 17290/2023. A originare il caso una condòmina che citava in giudizio il vicino per ottenere la rimessione in pristino dell’edificio dalle opere da lui realizzate consistenti nella trasformazione di luci in vedute, nell’abusiva realizzazione di una fognatura e nell’indebito allargamento di uno spazio di isolamento, edificato in danno della condomina, sconfinando nella sua proprietà. Il vicino, negando di avere compiuto le opere, ribaltava il tutto presentando domanda riconvenzionale con cui affermava che le opere illegittime erano state invece realizzate proprio dalla sua vicina, opere che stravolgevano la facciata con la copertura ad intonaco e il cambiamento degli infissi. Pertanto ne chiedeva la rimozione anche se le opere erano state autorizzate dal Comune. Il Tribunale in primo grado aveva riconosciuto le ragioni della condomina, non così la Corte di appello che riformava la sentenza e le ordinava la riduzione in pristino dell’esterno del fabbricato. Via la copertura con intonaco andava ripristinato l’originario stato con pietre a vista. La Corte di appello osservava che la copertura con intonaco della metà superiore della palazzina era una innovazione, che avrebbe richiesto il consenso dell’altro condòmino vicino, essendo tale da alterare il decoro architettonico dell’edificio. La Cassazione rigettava il ricorso della proprietaria, in particolare, nel motivo per cui il rifacimento dell’intonaco aveva riguardato le sole parti dell’edificio in cui insisteva la sua abitazione, con la costruzione di un cappotto termico, per l’efficientamento energetico della struttura. La Suprema corte rilevava che, nonostante la condomina sottolineasse che le facciate dei due piani si sarebbero presentate sin dall’origine non omogenee, il pregiudizio all’aspetto estetico dell’edificio era evidente e l’intervento di efficientamento energetico non bastava a giustificarlo. Risultava lesa l’armonia e l’unità delle linee di stile, rilevante anche per i fabbricati che non rivestono particolare pregio artistico o estetico. Inoltre l’alterazione architettonica delle linee decorative e delle caratteristiche estetiche non necessariamente deve implicarne la radicale deturpazione che rappresenta un di più rispetto alla semplice e rilevante menomazione o deterioramento (Cassazione ordinanza 18928/2020). Condivisibile perciò la condanna in appello alla riduzione in pristino.
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31/07/2023


La Corte di Cassazione, torna sul delicato tema dell'inadempimento dell'obbligo informativo gravante sull'intermediario finanziario nei contratti relativi a servizi di investimento, giungendo ad affermare la sussistenza di una vera e propria presunzione del nesso di causalità tra violazione dell'obbligo informativo da parte dell'intermediario finanziario e il pregiudizio patrimoniale subito dall'investitore. A dire dei Giudici: "… al riscontro dell'inadempimento degli obblighi di corretta informazione consegue l'accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra il detto inadempimento e il danno patito dall'investitore". Tale conclusione, che di fatto si pone in continuità con l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità, troverebbe la propria ragion d'essere nel complessivo quadro normativo in materia e, in particolare, come chiarito dalla stessa Suprema Corte con l'ordinanza in commento, nella "… funzione assegnata dal sistema normativo all'obbligo informativo gravante sull'intermediario che è preordinato al riequilibrio dell'asimmetria strutturale del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell'investitore, al fine di consentirgli una scelta di investimento realmente consapevole". Ciò significa che, una diversa interpretazione delle norme in materia, condurrebbe a ignorare la funzione specifica dell'obbligo posto a carico dell'intermediario, che è proprio quella di colmare l'asimmetria informativa tra il cliente e l'intermediario. La Cassazione ha poi rilevato che l'intermediario può superare tale presunzione, fornendo la prova che il pregiudizio si sarebbe comunque concretizzato, anche nell'ipotesi in cui l'investitore avesse ricevuto le informazioni omesse. Particolarmente rilevante è la circostanza che la Corte abbia ritenuto di precisare che tale prova "non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell'investitore", desunta da scelte pregresse ribadendo - anche in questo caso - quanto affermato dalla più recente giurisprudenza (cfr. Cassazione, ordinanza 11549/2020 e n. 7288/2023) che impone una verifica più rigorosa, sul presupposto che, anche l'investitore più esperto e con "propensione a rischio alta", deve poter selezionare - sulla base delle informazioni fornite dall'intermediario - tra i vari investimenti offerti dal mercato, valutando, tra quelli rischiosi, gli investimenti che garantiscono una maggiore probabilità di successo. Affermati tali principi, la Suprema Corte - con l'ordinanza in commento - ha accolto il ricorso dell'investitore, statuendo che la banca non era stata in grado di dimostrare in giudizio il superamento della presunzione del nesso causale, mostrando così di non condividere l'impostazione dei giudici di appello che, pur riconoscendo l'inadempimento degli obblighi informativi da parte dell'intermediario, lo aveva ritenuto irrilevante e privo di conseguenze sul presupposto che si trattasse di un cliente incline agli investimenti ad alto rischio: valutazione che - peraltro - si riferiva ad un periodo successivo alla data in cui era stato effettuato l'investimento. Prende, quindi, sempre più forza il principio per cui l'intermediario finanziario è tenuto a prestare una consulenza personalizzata, tale da consentire all'investitore di conseguire una conoscenza concreta ed effettiva del prodotto finanziario proposto, affinché il suo consenso sia pienamente consapevole, come del resto previsto dall'art. 31 del Regolamento Consob 16190/2007; ne consegue che l'intermediario finanziario sarà responsabile per avere omesso di avvertire, in modo specifico, l'investitore circa i rischi dell'operazione prospettata.
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20/07/2023


Tribunale di Torino ha riconosciuto il diritto alla NASPI del lavoratore che dimessosi per giusta causa a cauda di un trasferimento della sede di lavoro ad oltre 50 km, non ritenendo necessario l'instaurazione di un giudizio volto a far accertare l'illegittimità del provvedimento datoriale. In particolare, l'Inps aveva negato la NASPI al lavoratore, non essendo il rapporto cessato per risoluzione consensuale, come invece richiesto dal messaggio n. 369/2018. Il Tribunale, al contrario, ha ritenuto illegittima la prassi dell'Inps, dovendo equipararsi le dimissioni per giusta causa alla risoluzione consensuale, in caso di trasferimento ad oltre 50 km di distanza, dovendo considerarsi, in entrambi i casi, il rapporto cessato per causa non imputabile al lavoratore e, dunque, involontariamente.
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20/07/2023


Attraverso l’ordinanza 18455/2023, la Corte di Cassazione si esprime sulla genuinità di un appalto, precisando gli specifici presupposti alla quale è subordinata. Questa non può prescindere dalla verifica del fatto che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato autonomo, da conseguire con un’organizzazione del lavoro effettiva e indipendente. Se i poteri direttivo e organizzativo sono affidati al committente, al contrario si materializza un appalto illecito di manodopera. ❗️ I giudici però sottolineano che se l’appaltatore utilizza capitale, attrezzature e macchine fornite dell’appaltante, si ha uno pseudappalto solo se l’apporto dell’appaltatore diviene marginale o accessorio, elemento che va concretamente accertato dal giudice. Se quindi l’appaltante fornisce macchinari e attrezzature, ma è l’appaltatore a conferire capitale ulteriore per sostenere il costo del lavoro, assumendo rilievo preminente, l’appalto va comunque ritenuto genuino.
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20/07/2023


Il licenziamento di un dipendente part-time che, nell’orario di lavoro supplementare, rifiuta di frequentare un corso di formazione sulla sicurezza è da considerarsi legittimo. Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20259/2023. I giudici sottolineano come con la dizione di orario di lavoro, rimandando al dlgs. 81/2008, ci si riferisca a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro”, quindi anche in caso di attività prestata in orario eccedente a quello ordinario. Elementi quali “sicurezza” e “salute” rendono indispensabili la formazione del dipendente, per cui risulta irragionevole una lettura rigida del concetto di orario di lavoro, come quello presentato dal dipendente.
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