Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, infatti, non sono deducibili a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno le somme che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, la cui eventuale non debenza dà luogo ad un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall'istituto previdenziale (Cass., sez. lav., 5 marzo 2020, n. 6369). E, nell'ambito specifico della disciplina di tutela per l'illegittimità del licenziamento, si è affermato che a titolo di aliunde perceptum rilevano solo i redditi conseguiti attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa, nella qualità di incrementi patrimoniali del danneggiato valutabili quali conseguenza immediata e diretta del licenziamento stesso e quindi rilevanti in termini di compensato lucri cum damno (cfr. Cass., sez. lav., 31 ottobre 2022, n. 32130; id., 19 giugno 2018, n. 16136). Prestazioni pensionistiche o di natura previdenziale, quali indennità di mobilità o di disoccupazione, se percepite dal lavoratore, si pongono, invece, su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che possono derivare al dipendente per effetto del licenziamento quando però impieghi altrimenti la propria capacità lavorativa, e la loro eventuale non spettanza può dar luogo solo ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge (v. anche Cass., sez. lav., 15 maggio 2018, n. 11835; id., 27 marzo 2017, n. 7794).
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